FILOSOFIA E TEOLOGIA
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ilosofia e teologia» non poteva sottrarsi alla sfida imposta dal calendario. Il succedersi dei centenari, in questo caso enfatizzati dalla scadenza semimillenaria, si è prestato nei secoli a diversificate funzioni, sovente di carattere autocelebrativo e polemico, accomunate tutte comunque dal fatto di essere testimonianza più dell’epoca a cui appartengono che non della figura storica cui fanno riferimento, Martin Lutero, e degli eventi che da lui hanno preso origine, la Riforma protestante.

Le cronache delle celebrazioni successive nei secoli mostrano un’evoluzione che va dall’accentuazione della specificità protestante (1617) evolve in direzione critica e oppositiva rispetto al cattolicesimo e al papato (1717) per assumere tratti orgogliosamente nazionali (1817), che diventano esplicitamente nazionalistici e antifrancesi in occasione della Prima guerra mondiale (1917). L’antigiudaismo riscontrabile in molte formulazioni luterane viene poi utilizzato per giustificare il razzismo nazista dai DeutscheChristen, mentre nel secondo dopo guerra i tedeschi occidentali attingono a Lutero per vedervi uno stimolo al rinnovamento del loro paese e quelli orientali negli anni ’80 lo liberano dalla condanna engelsiana per il suo atteggiamento contro i contadini per consacrarlo come esponente di una rivoluzione paleoborghese. Questa considerazione, che tiene conto anche delle commemorazioni per anniversari biografici di Lutero, non deve necessariamente concludere nella denuncia di un carattere strumentale e falsificante delle celebrazioni. Per molti aspetti è certo così, ma nelle espressioni più serie si evidenzia piuttosto quanto la risposta di cui si va in cerca in una ricostruzione storica sia condizionata dalla domanda a partire dalla quale muove. Se questa domanda è, poniamo, l’originalità e la specificità della Riforma protestante, difficilmente il cuore delle ricostruzioni avrà carattere ecumenico; se l’interesse è volto alla rivendicazione di una specificità culturale nazionale, ne conseguirà un’attenzione particolare per il contributo alla storia della lingua, della cultura e della storia nazionale tedesca, mentre meno rilevante risulterà, a beneficio di un universo di destinatari ampio e laico, la specificità teologica di Lutero. Ogni celebrazione metterà così in luce alcuni particolari aspetti della figura di Lutero e corrispondentemente ne lascerà altri in ombra. Nel migliore dei casi essa finirà dunque per dirci ‘qualcosa’, e forse anche molto, dell’inquieto monaco agostiniano, ma lo farà pur sempre rivelando molto di sé: gli interrogativi e le inquietudini di un tempo, le sue precomprensioni e preoccupazioni.

E non potrà essere diversamente nemmeno per noi, pur nell’acribia della ricostruzione e nell’onestà della ricerca. Se qualcosa ci differenzia da epoche precedenti è forse solo la più esplicita consapevolezza del carattere sempre situato della nostra interrogazione.

Il ruolo di un editoriale appare perciò ai miei occhi non tanto quello di sintetizzare le risposte che gli articoli ospitati in questo numero propongono, quanto quello di evidenziare le domande da cui essi scaturiscono e anzitutto la domanda generale da cui il numero nel suo insieme ha preso avvio.

Già nel formulare l’invito ai relatori la questione è stata esplicitata attraverso la sintetica formula «Lutero e il soggetto moderno». Ciò che a una rivista di teologia e filosofia, aperta non solo alle diverse confessioni cristiane, ma a interlocutori interessati alla domanda religiosa indipendentemente da una professione di fede, importa approfondire non è, per dir così, la consistenza luterana di Lutero e neppure la relazione di questa con il cattolicesimo romano o con altri sviluppi riformati, non è dunque, strictosensu, la sua teologia o ecclesiologia o apertura interconfessionale, ma il rapporto che il nucleo del pensiero luterano intrattiene con la modernità. Come si vede, interrogata è dunque anzitutto la modernità, ovvero noi stessi, e l’invito è a ricostruire la relazione che sussiste tra concetti centrali della modernità come soggetto, intersoggettività, ragione, libertà e Lutero.

La questione come tale non è affatto nuova e una risposta a essa si è già ampiamente cristallizzata. La Riforma dà inizio alla modernità e questa costituisce a sua volta una secolarizzazione dei contenuti della Riforma. Il fatto tuttavia che essa si riproponga suggerisce l’ipotesi che non ci si senta del tutto a proprio agio entro questa formulazione. E ciò da entrambi i corni della domanda. Il rapido succedersi di denominazioni come postmoderno, post-postmoderno e metamoderno denunciano una diffusa labilità del nostro tempo, che per un verso non prende congedo dal moderno e per l’altro esita a ritrovarvi senza riserve la propria identità. Ma anche dal versante della ricostruzione di Lutero non può mancare un forte disagio rispetto all’equazione proposta, dal momento che non solo è innegabile una matrice affatto non moderna nell’ispirazione luterana, e dunque una diversa fondazione di concetti che pure presero corso nel moderno, ma anche una loro differente intenzione (eteronoma, se considerata dal punto di vista della ricostruzione storiografica classica).

Ma veniamo più dettagliatamente ai singoli contributi, senza per ciò poterne riprodurre il ricco contenuto, ma sforzandoci anche in questo caso prevalentemente di individuare la domanda che vi soggiace.

Fin dal titolo (Lutero e la modernità) il saggio di Franco Buzzi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, curatore, tra l’altro, dell’edizione italiana del commento di Lutero alla Lettera ai Romani, affronta le questioni che qui abbiamo richiamato nella loro generalità e complessità. Lo fa con una torsione che è in linea con ciò che si è ora esposto: interrogandosi non su quanto discenda da Lutero, ma indagando in qual modo la modernità si sia rapportata a Lutero. Rovesciata la domanda, rispetto a quanto avviene abitualmente, accade che risulti anche tutta la fragilità della risposta usuale. Se si prendono come pietre di paragone due concetti tipici del moderno come libertà e ragione, l’impressione è che anziché di una derivazione, sia pure secolarizzata, del moderno dalla Riforma, si debba piuttosto concludere a una netta opposizione. E tuttavia questa formula non è meno fallace di quella opposta, che vorrebbe appunto derivare il moderno da Lutero. Volgendoci ai contenuti l’esame di Kant, di Fichte, di Heidegger evidenzia la presenza di intrecci con Lutero e la permanenza di schemi che con lui consentono. Andando magari oltre quanto nel saggio è problematicamente enunciato, ma guidati dall’innovativa formulazione della domanda che lo struttura, verrebbe da dire che il moderno non è forse ciò che crede di essere, o che noi crediamo che sia, e che in esso permane l’attualità delle questioni poste da Lutero.

Jean Greisch, filosofo della religione, che è stato mio predecessore sulla cattedra Guardini di Berlino, dedica il proprio studio a Lutero e l’ermeneutica. Il titolo, ermeneuticamente suscettibile di una pluralità di interpretazioni, non definisce peraltro un tema, un perimetro di ricerca, ma un modo di affrontarla; non indica dunque nella direzione di un contenuto da acquisire, ma di una modalità ermeneutica di porre le domande. Introdotti dal resoconto di cinque fatti fondamentali della biografia, tutti aventi il carattere di evento improvviso e decisivo, veniamo resi attenti a uno snodo fondamentale del pensiero teologico di Lutero. Questo consiste in diamanti di incommensurabile valore (sola fide, sola scriptura, solus Christus, sola gratia) che mettono in crisi un’inclusione immediata nella tradizione, la interrompono, come era avvenuto per gli eventi biografici richiamati, pretendendo una primazia che riorienta completamente il modo d’essere cristiani e richiede di trasformarsi da principio a metodologia, così da imporre per questa via un approccio ogni volta e sempre di nuovo ermeneutico. Non l’ermeneutica della relatività, ma un’ermeneutica religiosa, ancorata alla scrittura. Sanguinanti sono i conflitti che ne sono venuti nella nostra storia, ma è tuttavia attraverso un rinnovato sforzo ermeneutico, centrato intorno al tema della giustificazione, che si può procedere verso un maturo ecumenismo. È insomma la domanda e l’attitudine ermeneutica ciò che, dopo aver preso spunto (e poi anche, almeno parzialmente, congedo) da Lutero, torna a darci la chiave per rileggere questo grande della storia cristiana moderna: la frattura che egli introduce, i continui erratici principi che scopre non culminano per noi nella dissoluzione della tradizione, ma possono valere come nuovi principi ermeneutici di cui riappropriarsi.

Sergio Rostagno, teologo valdese e collega di direzione di questa rivista, autore di un recente lavoro su Lutero (Doctor Martinus), rilegge la vicenda della Riforma guidato dalla domanda inequivocabilmente moderna circa il soggetto. Sostituendo all’autorità della chiesa il tribunale della coscienza (si pensi all’emergenza della prima persona singolare nella celebre dichiarazione di Worms «qui sto io. Non posso altrimenti»), sembra alla mentalità moderna che Lutero apra alla soggettività in luogo dell’oggettività, ma la coscienza dell’individuo non è frutto di un’autoposizione autonoma, poiché ha il proprio radicamento nella trascendenza del verbo divino. Ne discendono conseguenze molteplici e sempre anche problematiche. La coscienza è libera, ma nel senso che essa è costituita come libera per via aliena. Potremmo dir così, il soggetto è libero (libertà 1), ma questo non significa che abbia libertà (libertà 2: di qui il tema del servo arbitrio, di una libertà che disconosce il proprio debito di costituzione). Potremmo anche aggiungere che il soggetto, che così campeggia nella sua relazione decisiva con Dio, è una libertà sciolta da ogni legame sociale, ma la prova che i gesti di libertà siano tali risiede solo nel fatto che questi siano compiuti a vantaggio del prossimo. La libera soggettività si trova così esposta al riconoscimento intersoggettivo, considerato come principio di pari livello: è l’altro a certificare la mia libertà. Analogamente per quanto riguarda il discusso rapporto tra fede e opere, dove le opere non possono essere l’autenticazione della fede, ma sono da intendere come il frutto di un soggetto fatto libero e reso perciò responsabile.

Questi saggi costituiscono la struttura portante del quaderno, che è arricchito dai contributi di Gabriella Cotta e di Juan Carlos Moreno Romo che, perfettamente in linea con la tematica complessiva di questo numero, illustrano la prima l’importanza in Lutero della tradizione teologica di matrice scotista e il suo proiettarsi negli sviluppi della modernità influenzata da Lutero, il secondo la sotterranea presenza, per lo più sotto mentite spoglie, della teologia luterana negli sviluppi filosofici del moderno.

Quanto deve dunque il moderno a Lutero? La risposta, non univoca, ma ricca di sfumature, che il quaderno offre, è fatta anzitutto di due negazioni. È negato infatti che la teologia di Lutero sia l’inizio del moderno ed è parimenti negato che il moderno non abbia nulla che fare con quella teologia. Forse il moderno – ma di quest’ipotesi assumo in prima persona la responsabilità — è un’altra possibile versione di tutto ciò; è il confrontarsi con i medesimi temi e il far uso di istanze assai prossime, volgendole però in altra direzione. La storia non è una linearità progressiva ed escludente. Il moderno può essere altrimenti di come è stato senza perciò essere pre moderno o anti moderno. E Lutero torna attualissimo, indirizzandoci altrimenti da come è accaduto avvenisse. Lo stesso ecumenismo, in questa prospettiva, potrebbe ricevere nuovo slancio, configurandosi non come il prudente venirsi incontro a metà strada delle diverse confessioni, ma come una sfida radicale a sviluppare altrimenti la modernità


Ugo Perone