FILOSOFIA E TEOLOGIA
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La questione del sacro

 

Il «sacro» è una categoria sulla quale la nostra rivista ha riflettuto più volte fin dalla sua fondazione: ne discutono ex professo il fascicolo «Religione e sacro tra moderno e postmoderno» (VI, 1992, 3), il fascicolo «Secolarizzazione e ritorno del sacro» (IX, 1995, 3), il fascicolo «Il sacrificio e la croce» (XVI, 2008, 3), senza soffermarsi sui tanti richiami presenti in altri fascicoli, i quali ci fornirebbero una trama ancora più fitta di puntualizzazioni e approfondimenti.

C’era allora bisogno di riprendere un tema così abbondantemente presente nella discussione della rivista? A spingere la redazione meridionale a ritornare sull’argomento vi sono stati diversi motivi. Il primo è che è difficile sottrarsi al fascino delle date. A un secolo dal famoso saggio di Rudolph Otto, Das Heilige (1917), appariva opportuno un bilancio di quello che abbiamo chiamato lo «sguardo antropologico» sul sacro che pervade la storia della cultura novecentesca. Prima di Otto vi erano già stati le Lectures on the Religion of the Semites (1894) di Robertson Smith, l’ Essai sur le sacrifice di Hubert e Mauss (1899), le Formes élémentaires de la vie réligieuse di Emile Durkheim (1912), Totem e tabù (1913) di Sigmund Freud. Dopo verranno la Phänomenologie der Religion (1933) di Gerardus van der Leeuw, il trattato socio-antropologico di Roger Caillois, L’homme et le sacré (1939), che fissa la teoria dell’«ambivalenza» costitutiva del sacro, nonché ancora più tardi la fenomenologia del sacro centrata sulla separatezza tra spazio e tempo sacri e spazio e tempo profani che Mircea Eliade esporrà in Le sacré et le prophane (1956). Nella seconda metà del Novecento, sarà poi soprattutto il tema del rapporto tra sacralità e violenza a dominare la scena, con Réné Girard, La violence et le sacré (1972) ma anche con il Walter Burkert di Homo necans che esce nello stesso anno. Tra l’altro, entrambi questi maestri – nel caso di Girard si tratta anche di un autore presente in questa rivista, che ne ha sovente discusso le posizioni – ci hanno lasciato recentemente e anche questo è stato uno stimolo a tentare un bilancio.

Ma ovviamente l’esigenza di un bilancio di un secolo di sguardo ‘antropologico’ sul sacro, con le sue diverse declinazioni (sociologiche, socio-culturali o socio-biologiche come nell’ultimo Burkert) non sarebbe stato sufficiente a giustificare una ripresa di interesse, se non fosse stato a motivo di qualcosa di più attuale e cogente. Come aveva visto con grande anticipo Kolakowski (alle cui intuizioni dedica un saggio in questo numero Carmelo Colangelo), il grande calderone della globalizzazione non ha segnato la definitiva scomparsa del sacro, ma piuttosto una contaminazione tra la ripetizione di forme arcaiche ed estremamente violente di sacralità nei vari fondamentalismi e forme altrettanto estreme di profanazione di ogni dignità umana: le due forme convivono nel miliziano che sacrifica ritualmente gli infedeli trasmessoci dai primi filmati di Daesh o nel kamikaze che sacrifica se stesso uccidendo centinaia di altri come pidocchi o esseri senza alcuna dignità.

Proprio questo presente però impone una rilettura scaltrita e dubbiosa di un uso generico della categoria di «sacralità» che rischia di significare tutto e il contrario di tutto. Giorgio Agamben nel primo volume della serie dedicata all’homo sacer (Homo sacer, Einaudi, Torino 1995) deride l’antropologia moderna della religione e la sua teoria dell’ambivalenza del Sacro (numinoso, tremendo, orrendo) riconducendo il sacer a un fenomeno esclusivamente giuridico-politico, quello dell’instaurazione del potere sovrano e la riduzione della vita a «nuda vita» uccidibile a piacere (p. 89). Il che ripropone il problema di quale sia allora la relazione tra le «sfere del politico e del religioso», come le chiama lo stesso Agamben, e quali siano le ragioni della loro continua contaminazione linguistica e sociale (un tema su cui torna, con motivi diversi da Agamben, anche Carlo Ginzburg con Paura reverenza terrore del 2015). Come è che il concetto di vitae necisque potestas, in cui Agamben individua (del tutto correttamente), una formula di sovranità, può divenire in un gesuita del Seicento il termine attraverso il quale si distingue lo specifico del discorso «religioso» separandolo dall’ambito del «civile»? L’esperienza religiosa del «sacro» va allora intesa come un semplice riflesso dell’esperienza umana dell’esposizione a un potere e della necessità della sottomissione ad esso? O essa dà luogo a propri autonomi significati che l’esperienza primordiale dell’esposizione e della sottomissione non fa che metaforizzare? E infine l’esperienza del sacro è il fondamento stesso della religione o uno dei suoi poli, ma non l’unico e forse nemmeno quello centrale?

Sono questi i temi su cui si interroga il presente fascicolo, con voci talora dissenzienti tra loro, ma molto convergenti per i percorsi che attraversano. L’intervento di Carlo Manunza affronta direttamente il problema della appropriatezza delle spiegazioni antropologiche del sacrificio alla luce della logica dell’azione (del «fare») specifica del testo biblico, sottolineandone la struttura comunitaria ed integrante nonché la correlazione forte sacrificio-dono. L’intervento di Sergio Sorrentino sottolinea come l’esperienza fenomenologica del Sacro sia sempre esperienza di un potere (o «sovra-potere» con Otto), sottolineando però la differenza dei tipi di potere che sono oggetto dell’esperienza religiosa e dunque la possibile apertura dell’esperienza del Sacro a due esiti opposti, asservente o liberante. Più radicalmente, Limone oppone due antitetiche esperienze del Sacro, il «potere sovrano che decreta il sacro» e il «sacro come limite al potere sovrano» in dialogo critico con Agamben. Per Limone l’inviolabilità è l’esperienza centrale di un’altra concezione della sacralità, quella che proprio di colui che può essere ucciso da tutti (Caino) fa colui che non deve essere ucciso da nessuno, «persona» e non più «nuda vita».

Se questi interventi mirano a definire una semantica del sacro più articolata e intrinsecamente aperta di quella che ci restituiscono gli studi antropologici, altri interventi mirano soprattutto a sottolineare gli elementi di evoluzione e contraddizione che le grandi religioni etiche presentano rispetto alle esperienze primordiali della sacralità. Cammarota, ricollegandosi alla filosofia di Cohen e di Levinas, sottolinea la centralità del «santo» piuttosto che del «sacro» nella tradizione religiosa ebraica. Taddei Ferretti analizza l’insegnamento di Gesù come terapia nei confronti della carica di violenza ed esclusione presenti nella concezione del «sacro» dominante a quei tempi. In breve, la dimensione religiosa più che come una diversa (possibile) gestione dell’esperienza del Sacro, viene qui interpretata anche come portatrice di istanze critiche e desacralizzanti. A questa linea si ricollegano anche altre ‘figure’, come quella dello scrivente che identifica nell’idealizzazione della cultura cinese da parte dei missionari gesuiti l’inconfessato desiderio di una religiosità meno centrata sulla concezione verticale del «sacro» tipica della dogmatica cristiana dell’epoca.

Ancora tra le ‘figure’, vale poi la pena di segnalare – oltre a quella di Colangelo sui pionieristici testi di Kolakowski che ho già ricordato – quella di Aime su Derrida. Il saggio di Aime rinviene le tracce di una problematica del sacrificio (legato all’esperienza della circoncisione) nei testi di Derrida sviluppandone l’analisi sia in direzione della questione del d(on)are la morte e del rapporto tra uomo e animale, sia in direzione della relazione paradossale sacrificio/dono qui analizzata con grande finezza: il sacrificio istituisce un’economia, laddove il dono non lo può e tuttavia il dono resta lo sfondo e la possibilità di ‘superamento’ del sacrificio stesso. Come si vede, riemergono qui molti dei temi affrontati negli altri interventi, ripercorsi in un’ottica decostruttiva che ne accentua gli aspetti paradossali. Forse da questi paradossi occorrerà ripartire per andare oltre i limiti dello «sguardo antropologico», restando però fedeli alle sue conquiste.

 


Francesco Piro