FILOSOFIA E TEOLOGIA
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La sezione monografica di questo fascicolo ripropone l’antica questione filosofica e teologica della colpa muovendo dall’urgenza - storico-culturale ed etica prima ancora che teoretica - di un interrogativo che riguarda le condizioni attuali dell’ethos, considerate sotto un profilo che viene per lo più trascurato ma che non per questo è da ritenersi meno importante e decisivo. L’interrogativo è quello che figura nel titolo e che in termini più espliciti può essere formulato così: siamo in presenza di un oscuramento del sentimento della colpa nella formazione della coscienza morale e religiosa nel travagliato passaggio d’epoca che stiamo attraversando? Posto in questi termini, l’interrogativo richiede qualche delucidazione circa le sue motivazioni e il suo significato. La tendenza all’autonascondimento – si chiederà innanzitutto - non è un tratto costitutivo del fenomeno della colpa, come tale già presente nel racconto biblico della prima colpa e poi sempre di nuovo messo in luce in analisi memorabili di moralisti e di filosofi? Come non ricordare, per fare soltanto un esempio assai celebre, le osservazioni di Kant sull’ipocrisia della buona coscienza, su quella « perfidia del cuore umano […] che porta l’uomo ad ingannarsi circa le sue buone e le sue cattive intenzioni […], a non inquietarsi riguardo alla sua intenzione, ma a ritenersi piuttosto giustificato dinanzi alla legge»? In che senso, allora, si può parlare di un’eclissi della colpa come fenomeno specifico dell’epoca nostra? E in quale dei molteplici significati del termine «colpa», che una lunga tradizione di analisi psicologiche, filosofiche e teologiche ci ha insegnato a distinguere, per poter cogliere le diverse facce e i diversi livelli di profondità di un fenomeno dell’esistenza così sfuggente, ambiguo, complesso e stratificato?

Peraltro, l’interrogativo non è certo nuovo. Venticinque anni or sono, con riferimento al senso specificamente religioso del peccato, esso fu al centro dell’esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II «Reconciliatio et paenitentia», nella quale, riecheggiando un detto di Pio XII («il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato»), si parla della perdita del senso del peccato come del sintomo di «un grave oscuramento della coscienza morale»: « Non vive l’uomo contemporaneo sotto la minaccia di un’eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un’‘anestesia’ delle coscienze?»; e si cerca di capire «questo fenomeno del nostro tempo» ponendolo in relazione a «talune componenti della cultura contemporanea», individuandone, infine, la causa ultima nello smarrimento del senso di Dio. Sul piano puramente antropologico, se si guarda a ciò che le cronache raccontano della quotidianità della vita individuale e sociale, sembrerebbe che le cose non stiano proprio così. «Di chi è la colpa?»: è la domanda che immediatamente risuona al cospetto di ogni negatività della vita; e con essa puntualmente si leva la richiesta che si metta in moto il meccanismo giuridico dell’imputazione, del giudizio e dell’eventuale condanna del colpevole. Richiesta ineccepibile da tutti i punti di vista, anche se non priva di ambiguità, sempre in bilico com’è tra concezioni opposte della civiltà giuridica e delle esigenze della vita morale, dato che in essa può esprimersi tanto una genuina domanda di giustizia, come premessa indispensabile del ravvedimento del colpevole e della redenzione dalla colpa, quanto, come forse più spesso accade, una pura e semplice pretesa di rivalsa, in un’ottica puramente retributiva.

L’idea della colpa sembrerebbe, dunque, tutt’altro che svanita nel nostro orizzonte culturale. Ma si può dire che all’intensità e alla modalità del suo operare nella forma dell’accusa dell’altro corrisponda una pari disponibilità al riconoscimento della propria (parte di) colpa? Che il linguaggio dell’accusa trovi il suo indispensabile pendant in quello della confessione (della propria colpa)? «La nostra epoca – scrive Jean Delumeau, traendo un rapido bilancio della sua imponente indagine su Le péché et la peur, attraverso un confronto sintetico tra il passato e il presente della nostra civiltà - parla sempre di soppressione del senso di colpa (‘decolpevolizzare’ si dice in linguaggio tecnico) senza accorgersi che mai nella storia la colpevolizzazione degli altri (ossia il processo di rendere gli altri colpevoli di qualche cosa) è stato forte come oggi». È un’indicazione preziosa questa di Delumeau, perché insieme al persistere dell’idea della colpa ne segnala quel peculiare mutamento di senso e di funzione rispetto al passato che induce a chiedersi se dietro l’insistito ricorso al meccanismo dell’accusa, come forma se non esclusiva quanto meno di gran lunga prevalente della sua sopravvivenza nelle condizioni attuali della cultura, non si celi qualcosa come un affievolimento o una perdita di profondità del sentimento della colpa nella coscienza dell’uomo contemporaneo. Quel meccanismo, infatti, consente sì di ricondurre il ‘colpevole’, o colui che si presume tale, alla responsabilità delle sue azioni o delle sue omissioni, ma consente altresì di scaricare di ogni peso la coscienza di tutti gli altri, esentandoli da ogni coinvolgimento e da ogni ulteriore esame di se stessi in ordine alle proprie prossime o remote responsabilità. Quando della colpa, come oggi per lo più avviene, si parla soltanto più alla «terza persona», in quanto colpa che è sempre da addossare a un altro, ciò che ne consegue è una drastica riduzione del fenomeno della colpa al suo livello più manifesto ma anche più superficiale. Non è questo il limite in cui ci si imbatte ogni volta che il fenomeno della colpa venga ridotto al suo concetto puramente giuridico, secondo il quale non c’è altra colpevolezza se non quella di cui ci macchiamo a seguito di una libera e consapevole determinazione della nostra volontà contraria alla norma? Che cosa resta nascosto e misconosciuto del fenomeno della colpa se non la sua struttura più profonda, più originaria, meno facilmente afferrabile e tuttavia sempre operante nella vita di tutti e di ciascuno, perché radicata nella costituzione stessa dell’esistenza, in quanto esistenza finita e perciò già sempre in situazione di ‘debito’ e di ‘legame’ con altri e con l’Altro? Per dirla in termini più espliciti: quel che resta nell’ombra non è quella originaria colpevolezza dell’esistenza che il cristianesimo ha conosciuto sotto il titolo di peccato originale, ma che – per non parlare di precedenti storici assai illustri - anche la filosofia del Novecento, in alcune delle sue voci più autorevoli, da Heidegger a Jaspers a Pareyson, da Nabert a Ricoeur a Levinas, non ha mancato di esplorare iuxta propria principia, pur nella diversità, degli stili di pensiero, delle prospettive problematiche e delle proposte?

«[…] L’uomo ‘occidentale’ sottoposto ad un’intensa persuasione della propria colpevolezza, fu indotto ad approfondire la conoscenza della propria interiorità, a conoscere meglio il proprio passato personale, a sviluppare la propria memoria […], a precisare la propria identità. La ‘cattiva coscienza’ si è sviluppata in sintonia con l’arte del ritratto ed ha accompagnato l’affermazione progressiva dell’individualismo e del senso di responsabilità. Insomma c’è stato un sicuro legame tra senso di colpa, inquietudine interiore e creatività». Sono le parole con le quali ancora Delumeau delinea con pochi efficacissimi tratti il ruolo che la coscienza della colpa ha svolto nella formazione dell’uomo occidentale e della sua cultura, lungo l’arco di una storia millenaria. Si può non avere alcuna nostalgia degli eccessi e delle patologie legati a quel processo peculiare di formazione della coscienza, ma non deve sfuggire la portata dirompente di quel mutamento di senso e di funzione dell’idea della colpa che si è qui sommariamente delineato.

Si è parlato a questo proposito di una sorta di radicale inversione di quel processo di interiorizzazione della colpa che, secondo la ricostruzione di E.R. Dodds, determinò, sul finire dell’epoca della Grecia arcaica, il passaggio dalla ‘civiltà della vergogna’ alla ‘civiltà della colpa’, avviando un processo storico di lunga durata al quale il cristianesimo avrebbe poi dato un impulso decisivo e del quale noi saremmo i tardi e stanchi eredi. La ‘società della vergogna’, alla quale staremmo ritornando, è una società in cui – secondo l’efficace tipizzazione di A. Margalit – «tutto è esteriorizzato e il motivo predominante dei suoi membri è evitare sanzioni esterne e mantenere il loro onore e il loro buon nome agli occhi degli altri». Si può discutere della radicalità di una tale diagnosi, ma le si deve riconoscere il merito di portare allo scoperto l’insostenibile leggerezza alla quale sembra essere avviata la coscienza morale degli uomini di questo tempo dell’apparire. Una tendenza, che deve preoccupare, se è vero che le negligenze della buona coscienza, poco disposta all’esame esigente di sé e della propria (parte di) colpa costituiscono il varco attraverso cui può passare la banalità dei mali più mostruosi.

I saggi raccolti nella sezione monografica di questo fascicolo e quello di Francesco Piro pubblicato nella sezione ‘Discussioni’ sono il frutto delle discussioni seminariali della Redazione meridionale della rivista che, nella linea di indagine da tempo perseguita sul tema «Tramonto o trasfigurazione del cristianesimo?», ha ritenuto di non poter eludere un tema così centrale nella tradizione del cristianesimo come quello della colpa, a partire dai sintomi di affievolimento della coscienza della colpa che è dato di cogliere nelle condizioni attuali della cultura. Essi non hanno la pretesa di esaurire l’ampio spettro di problemi e di interrogativi che si apre sullo sfondo delle considerazioni sommariamente svolte in questo editoriale. Di ciò la Redazione è pienamente consapevole. Individuare questioni, sia di ordine speculativo che di ordine storico-culturale, e figure meritevoli di considerazione rimaste eluse sarebbe un gioco fin troppo facile. Ma porre all’attenzione del dibattito un tema rilevante può valere il rischio di un’elaborazione parziale. Se non altro può valere come una sollecitazione a rilanciare e ad approfondire la ricerca.

Giuseppe Razzino