FILOSOFIA E TEOLOGIA
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ltivare e custodire il giardino del mondo»: suona familiare l'espressione che è il titolo di questo numero di «Filosofia e Teologia». Vi troviamo, infatti, un’eco della Bibbia e ultimamente la si è sentita ripresa nell'enciclica Laudato si' di Papa Francesco. Pur non intendendo svolgere una riflessione sull'enciclica, né articolare una puntuale esegesi biblica, questo volume non può quindi trascurare il riconoscimento e la considerazione di queste fonti, mentre sente echeggiare in esse una sapienza simbolica complessa, che da popoli e culture antichi attraversa i secoli e perviene al nostro tempo.

Quella espressione mette infatti in sequenza verbi e sostantivi di grande spessore evocativo, a convergere e rifrangersi nella parola «giardino»: è questo, infatti, il fulcro delle riflessioni raccolte in questo fascicolo, che articolano risvolti che sono teologici, filosofici, e più ampiamente culturali.

È del giardino del mondo, che si tratta. Ovvero del mondo, ma nel suo poter essere giardino. Il giardino, a differenza di quello che Gilles Clement chiama terzo paesaggio, è un luogo che ha bisogno di cura: di essere coltivato e custodito, appunto. Ci sono giardini all'inglese, alla francese, all'italiana, persiani, e altri ancora, ma di certo un giardino è un luogo dove qualcuno ha messo mano, ha prodotto un certo ordine: porta le tracce di una intenzione. Se dire che è del giardino del mondo, che si tratta, significa dichiarare, implicitamente, che è di questo mondo e non di qualche ulteriore luogo trascendente che ci si occupa, tuttavia è proprio ogni giardino del mondo che sembra in quanto tale indicare, annunciare, invocare un trovarsi in completa armonia e in pienezza: alludere a un'origine sovrabbondante, da cui deriva la fecondità del possibile, e insieme a un compimento inimmaginabile in cui nulla andrà perduto.

Tra i significati simbolici che vengono incontro nella figura del giardino il rinvio biblico all'eden è perciò un orizzonte irrinunciabile: in senso religionistico, ma anche culturale. La provocazione, più normativa che descrittiva, che di esso parla indicandolo alle preoccupazioni del coltivare e del custodire, va però poi a riferirsi anche più in generale ai temi dell'abitare, del rapporto tra natura e cultura, alle questioni della tecnica e della responsabilità, alla problematica etica, ma anche politica, del modo in cui, come esseri umani, consideriamo e trattiamo questo mondo.

Secondo questo ampio spettro sono concepiti i contributi qui raccolti, alcuni pensati più direttamente in riferimento alla considerazione della fonte biblica e ‘francescana’, altri più rivolti, invece, a prospettive filosofiche e anche di storia delle idee, fino a pervenire a una problematizzazione attualizzante.

Il volume, perciò, nella sezione «Figure» raccoglie i testi di Luigi Nason, Massimo Giuliani e Alfonso Marini. Il contributo di Nason, anche attraverso un titolo intrigante, introduce al tema biblico del giardino osservando come esso apra la Bibbia in Gen 1-3 e, dopo aver trovato riscontro tra l'altro in Isaia, in due testi della profezia di Ezechiele, e anche, significativamente, nel Quarto Vangelo nel contesto del racconto della Passione di Gesù, sia ripreso nell'ultimo capitolo del libro dell'Apocalisse (Ap. 22). Nason rileva che i verbi coltivare e custodire (Gen 2,15) «racchiudono una chiara allusione al culto e all’alleanza: šamar è il verbo usato nel Deuteronomio per parlare della ‘custodia/osservanza’ del comandamento; ‘abad richiama il ‘servizio’ come l’atteggiamento caratteristico richiesto dall’alleanza». Egli sottolinea, soprattutto, che il giardino è il luogo in cui Dio ? questo Dio che è detto essere un «piantatore di alberi», perché «piantare alberi» significava rispettare la vita in tutte le sue forme ? si rivolge all’uomo per dargli come nutrimento tutti gli alberi che aveva piantato. Certo, «tutto tranne tutto»: c'è un interdetto, che però, se si fa attenzione, non riguarda una parte, ma la totalità in quanto totalità. L'interdetto mette in guardia dalla bramosia, dal desiderio incontrollato che non si cura della relazione e riduce il dono a preda, per sé. Il giardino è un dono ma anche una responsabilità: da qui il limite, come messa in guardia di fronte alla possibilità di una scelta che condurrebbe ma verso la morte, come invito a optare quindi responsabilmente per la vita, offerta come dono e come compito.

Se alla Laudato si' fanno cenno diversi contributi del volume, Marini e Giuliani, con prospettive differenti, si sono più direttamente indirizzati a offrirne esplicitamente una ermeneutica rispetto al nostro tema. Massimo Giuliani, nel suo I doveri di giustizia verso il creato. Una riflessione ebraica (a partire dall'enciclica Laudato si') tenta di leggere more hebraico il testo papale, facendosi accompagnare in particolare dalle riflessioni di Paolo De Bendetti (a cui questo numero di «Filosofia e Teologia» dedica, nel cordoglio, una commemorazione) e rav Soloveitchik. Giuliani esplora l'idea di una comunità di destini tra esseri umani, animali e piante: come animali umani non siamo oltre la natura, ma parte integrante di essa, poiché noi stessi siamo terra (§2), come detto già in Bereshit/Gn 2,7. È un invito a rinunciare all'antropocentrismo specista. Tanto per l'ebraismo quanto per il cristianesimo questo non significa non credere «nella radicale unicità dell’uomo, nel suo essere be-tzelem Elohim, imago Dei, e dunque nella scintilla divina che lo fa vivo (anima in senso specifico). Tuttavia l’ebreo della Bibbia colloca tale trascendenza sempre sullo sfondo della natura e dell’immanenza umana». L'uomo ha il compito di custodire il creato in quanto non ne è proprietario, e perciò ha anche una responsabilità di restituzione: deve cioè non conservare il creato alle stesse condizioni in cui lo ha ricevuto, ma anzi migliorarlo. In questo senso deve soggiogare e dominare, e devo farlo come Dio lo sa fare: cioè essere la provvidenza del mondo. Ecco allora che nel paragrafo 71 dell'enciclica, ricorda Giuliani, Papa Francesco elenca le mitzwot del tempo, così importanti anche nella vita ebraica: norme limitanti, proibizioni, per riscoprire una dimensione creaturale e co-creaturale. Se nella coscienza di un limite all'uso e di una giusta misura, che significano sobrietà (§ 222), sana umiltà (§224) e austerità responsabile (§214), si può rinvenire allora un ideale della ragion pratica, in cui possono convenire e allearsi credenti e non credenti, nell'orizzonte della fede l'invito va inteso a collaborare con Dio per continuare l'opera della creazione: che, secondo una interpretazione qabbalistica (mistica) della creazione del mondo, si auto-limitò, pose un confine a/in se stesso, al fine di far essere il mondo.

Il testo di Alfonso Marini si pone, invece, proprio sulla scorta del tema del creato, nella prospettiva di rintracciare l'ispirazione francescana dell'enciclica, al di là degli evidenti elementi estrinseci di legame. Si sofferma su due aspetti particolari: il rapporto con il Francesco d'Assisi storico e le sue fonti, e il valore delle letture che il nostro tempo fa di questa figura, rilevando che le fonti francescane citate sono scarse e limitate a quelle ‘ufficiali’, ovvero alle due biografie di Tommaso da Celano e Bonaventura. Se certo si possono dire intrinseche alcune similitudini, come la preoccupazione e l'amore per il Creatore e le sue creature e la prevalente attenzione per i poveri e gli ‘scartati’ dal processo produttivo (dai primi biografi ufficiali Francesco d'Assisi fu definito pater pauperum), tuttavia Marini rileva che la figura storica di Francesco d'Assisi non appare davvero in rapporto diretto con la Laudato si’: e se non si può dire che per questo essa sia travisata, si deve riconoscere che è «mediata dal filtro dei riferimenti alla Scrittura e dalle letture dei due biografi ‘ufficiali’ citati», come anche dalla «lente della moderna sensibilità non solo religiosa ma anche storiografica».Per la nostra riflessione è interessante che l'unico scritto di san Francesco citato sia il Cantico di frate Sole, selezionato essenzialmente nelle sue parti sulle creature, «come una sorta di filo rosso che compare ogni tanto nell'enciclica».

Se alcuni contributi nel presente fascicolo sono quindi dedicati alle fonti a cui l'espressione del titolo ? «coltivare e custodire il giardino del mondo» ? rinvia, e quindi alle problematiche e alle questioni che si aprono nell'orizzonte biblico da un lato e nell'ambito dell'enciclica dall'altro, gli altri testi rivolgono la loro attenzione ad una ripresa del tema in diverse chiavi: come occasione per un ripensamento epistemologico, per una riflessione filosofica sulla storia delle idee, per una contestualizzazione problematica rispetto alle urgenze di questo nostro tempo.

La sezione «Questioni» si apre con il contributo di Bernhard Casper, Über den Zugang des Denkens zu dem Verstehen von Schöpfung: seppure anch'egli all'inizio accenna alla Laudato si'e, si indirizza poi subito, come indica il titolo, a riflettere filosoficamente sul tema della creazione. Casper rileva che per molti pensatori del XX e XXI secolo questo tema ha perso qualsiasi orizzonte biblico, per venire piuttosto declinato nel senso dell'immanenza della realtà. Poiché, osserva, a parte il periodo medioevale, in altre epoche non è che le cose siano andate molto diversamente, è legittimo chiedersi se il pensare filosofico debba intendere il discorso sulla creazione solo come qualcosa di mitico o addirittura di ideologico. È insomma davvero possibile pensare ciò che la tradizione giudeo-cristiana esprime con l'espressione «creazione di Dio»? Secondo Casper la questione esige che ci si interroghi in primo luogo su cosa significhi pensare: si deve intendere il pensiero filosofico solo come fondato sulla propria autonomia? Lo stesso Kant, osserva, nell'Opus postumum sottolinea che «Das Denken ist ein Sprechen und dieses ein Hören». Pensare è un accadere: accade qualcosa attraverso noi stessi, che comporta un rapporto, che ha bisogno di un'alterità per accadere, come disse poi Rosenzweig. Come ben sottolinea il verbo ascoltare, pensare è attenzione a qualcosa o qualcuno che sopravviene. Oltre al riferimento al ‘filosofare’ kantiano nel suo significato esistenziale di ricerca della verità, di dialogo e di ascolto, Casper suggerisce poi un’analisi preliminare della parola tedesca Wirklichkeit, distinta etimologicamente da realitas e ricondotta all’attività e alla temporalità: egli cerca così di riottenere una via, oggi quasi del tutto perduta, al concetto di creazione. Appoggiandosi alla ragion pratica kantiana e al suo accesso alla Wirklichkeit, cioè al mondo rispetto a ciò che, come soggetto individuale e responsabile, si deve attuare, rileva come qui emerga una domanda ? che cosa devo fare? ? che si rivolge non alla ragione in generale ma all'io stesso in quanto libertà: cioè come a un creatore. Infine, attraverso la terza domanda kantiana, «quando faccio ciò che devo, che cosa ho diritto di sperare?», in dialogo costante anche con autori contemporanei come Levinas e Rosenzweig, emerge una dimensione interpersonale della realtà e un nuovo accesso alla creazione alla luce della speranza di ‘realizzazione’ del bene.

Il saggio di Luciano Boi, dal titolo Complessità, spazi vissuti e fenomenologia dei luoghi, mostra la rilevanza, per una comprensione attuale di quella espressione, della teoria della complessità. Esiste una relazione complessa e multidimensionale di reciproca influenza tra genotipo e fenotipo, mente e corpo, uomo e natura, persone e luoghi: sono cammini che s’intrecciano nel corso dello sviluppo e dell’evoluzione, e che da questi sono plasmati. Un approccio integrativo e sistemico dell'ambiente naturale e antropico, spiega Boi, comporta lo sviluppo di indicatori ecodinamici e di indicatori di sostenibilità che si riferiscono a sistemi naturali (termodinamici, biologici, ecologici) e sociali (cognitivi, culturali, formativi) aperti, cioè sistemi che continuamente scambiano energia, informazione e altri contenuti con l'ambiente e li trasformano in processi autonomi. Ne deriva, allora, che «il mondo vissuto di ogni individuo non solo è legato ontogeneticamente al nostro corpo e alla sua esplorazione attiva dello spazio ambiente, e al pensiero in movimento, ma si costituisce anche a partire dalle relazioni che ognuno di noi tesse con il luogo in cui vive. Il luogo è lo zoccolo della formazione cognitiva e spirituale dell’essere umano». Per una strada diversa da quella religionistica, anche qui se ne conclude che questo esige un ripensamento della stessa nozione di libertà: come responsabilità. Quei verbi «coltivare e custodire» vanno intesi nel riconoscimento che «ogni individuo vive come imbricato con un altro individuo (o con altri individui)», l'idea nuova da sviluppare è che «la natura e il mondo vivente non agiscono indipendentemente l'uno dall'altro ma in una relazione di scambio reciproco tra di loro e con l'intorno che funge da ambiente vitale. Questo tessuto di percezioni, azioni e relazioni costituisce l'essenza stessa della vita».

Con Massimo Venturi Ferriolo il discorso si focalizza invece, in modo particolare, sul lemma «giardino». In Paesaggi e giardini luoghi del tempo i giardini sono intesi, a partire da Kant, come un intervento umano sulla natura in vista della presentazione in essa di uno scopo spirituale e di un ordine razionale: essi sono luoghi di lettura del mondo, esprimono la «tensione dell'esistenza», «la vita interiore di una comunità» (come sosteneva von Hofmannsthal). Il loro disegno geometrico o paesaggistico rispecchia la società che li ha promossi: «dai kepoi di Atene ai parchi inglesi espressioni delle libertà politiche; dai paradeisoi persiani ai giardini geometrici di stile francese, specchi della tirannide. Ogni impianto è terreno di lettura del mondo, caratterizzato dalla simultanea contemporaneità di presente e di passato che accoglie la memoria dell’antico».

Ancora del giardino, che mette in tensione storica, si occupa Martino Doni, in Inizio e fine del giardino. Estasi e inerzia. Se è vero che nelle Scritture la storia dell'inizio è narrata due volte, da due fonti diverse, e quindi l'inizio è da subito plurale, multiforme, «è già subito in cammino e in dialogo» (come ha fatto notare Dietrich Bonhoeffer), il racconto dell'inizio non serve però a render conto dell'inizio: è una presa di parola per stabilire una relazione, più che una istantanea sull'origine. Quindi «il mistero dell'inizio rivela il legame tra l'uomo e Dio, nel momento in cui Dio si rivela nel mistero stesso». Il racconto del giardino è perciò un testo di emunah, di alleanza, di adesione: l'idea di trovarvi la data di nascita del cosmo e delle sue leggi meccaniche è estranea alla dimensione biblica e figlia, invece, di epoche successive. La preoccupazione per l'inizio è stata però poi abbandonata in epoca moderna, e sostituita dal tema del fondamento stabile, dal problema del continuare a esistere: il principio dell’autoconservazione rende impraticabile la domanda circa l’origine divina della natura, come esclude quella sulla ragione sufficiente e ammette solo interrogazioni riferite al mutamento di stato. Questa è, propriamente, la frattura della modernità: la domanda sulla garanzia di futuro prende il posto della grande questione teologica dell'origine. Doni ricorda, in particolare, il lavoro di analisi di Blumenberg sull'avvento dell'età moderna, che ha indagato «in continuazione i gesti e gli eventi, le pratiche e le strategie che portarono alla sparizione del creatore, alla sostituzione del racconto del giardino con la progettazione del sistema di ingranaggi, all’esaurimento delle domande sull’origine e alle inquietudini circa i pericolanti equilibri che caratterizzano la metaforica edilizia e meccanicistica della Neuzeit». Così venne persa quella risorsa fondamentale che era il discorso del «giardino»: non la mera dimensione ecologistica, ma la concezione di un’umanità aperta all’altro e capace di riconoscersi parte di un intero. Ciò che «fa scomparire il giardino, ciò che scaccia dal paradiso, è l’illusione che l’autonomia umana sia data una volta per tutte; è così che l’autonomia diviene tracotanza».

Gli ultimi due testi della sezione «Questioni» cercano più direttamente un nesso con la condizione contemporanea del vivere e dell'abitare la casa comune. In L’uomo, la città e il suo progetto Virgilio Cesarone si concentra dapprima sul legame tra abitare ed esistere che si istituisce nel pensiero heideggeriano, per rilevare quindi il limite di questa pur feconda riflessione nella sua idiosincrasia nei confronti della realtà urbana. Per Heidegger l'abitare autentico, la radura in cui l'essere accade è il bosco, oppure i sentieri di campagna, non la piazza o il mercato. Questo significa, dice Cesarone, «l'incapacità, per Heidegger, di dare valore allo spazio pubblico». Il saggio vira allora drasticamente verso la posizione di Ritter, che ha letto il disprezzo della vita cittadina, ispiratore di tutto un fronte di Kulturkritiker che valutano in maniera negativa la civilizzazione, come un modello di pensiero inteso al rifiuto della polis in nome di un rifugio soggettivistico alla tecnicizzazione del mondo. Ciò che va perduta, però, è la dimensione politica dell’esistenza umana. Certo il progetto della città come tentativo di rispondere alle angosce dell'abitare è stato poi criticato come impossibile, perché tale sarebbe ormai divenuta la stessa pretesa progettuale. È la crisi della modernità, dichiarata tra gli altri da J.F. Lyotard. Ma Cesarone intende andare al di là della rinuncia decostruzionistica alle volontà progettuali e, pur rendendosi conto che la città rappresenta anche un pericolo di dispersione e disgregazione, appoggiandosi alla riflessione di Paul Ricœur richiama al senso del vivere insieme nella città: perché la questione dell'abitare non può essere scissa da una visione ‘politica’.

In un orizzonte più indirizzato sul versante sociologico-politico, contro il sistema individualista nella sua attuale declinazione economico-capitalista, che fa della natura, ovvero del creato, un oggetto appropriabile, argomenta infine il contributo di Ana María Bonet de Viola La ‘despropiación’ de la naturaleza. Repensar las normas de acceso a los bienes a partir de Laudato Si’. L'autrice mette in luce come sia necessaria una revisione dei postulati che nella modernità hanno governato il rapporto tra gli esseri umani e l'ambiente, come anche tra gli esseri umani stessi: si tratta infatti di un antropocentrismo deviato che non poteva che comportare la crisi ambientale e sociale in cui versa la nostra contemporaneità. Soffermandosi in particolare sulle vicende della «apropriación moderna de la naturaleza», ne rinviene il cespite nella dicotomia soggetto-oggetto, alla base della costruzione della dinamica moderna dell'identità come eliminazione della differenza. Da qui vede derivare la dicotomia tra società e natura e, quindi, il processo che ha trasformato la natura ? ormai intesa come oggetto ? in risorsa e poi in merce: mentre la democrazia liberale si costituiva quale regime di garanzia del soggetto libero e proprietario. Oggi, però, alcune questioni come quella delle biotecnologie, mettono in luce in modo paradigmatico la portata dell'intervento umano sul creato inserito in un orizzonte di senso che disconosce la creatività propria della natura e del suo creatore. È la questione urgente «de la patentabilidad de los recursos genéticos», che apre alla possibilità «de la apropiabilidad de lo vivo». Si tratta allora di avviare un percorso di alternativa al paradigma appropriativo moderno, prendendo le mosse e provando a coagulare esperienze e riflessioni che sono già in corso: «algunas cosmovisiones tradicionales de pueblos locales como el buen vivir andino o el ubuntu africano, pueden conjugarse con proposiciones más recientes como el concepto de ‘casa común’ de Francisco, la idea de ‘mundo común’ de Latour, la ‘Democracia de la tierra’ de Shiva o el ‘gobierno participativo de los bienes comunes’ de Mattei». Questi cammini profilano la necessità di un processo di disappropriazione, di sottrazione del creato alla dinamica del dominio, e possono costituirne i motore.

Si è cercato così di avviare una sorta di squadernamento delle molte questioni aperte dalla raccomandazione di «coltivare e custodire il giardino del mondo». Si sentono ancora urgenti ulteriori approfondimenti, teologici e filosofici: tra l'altro, sul tema della creazione e della sua pensabilità, della responsabilità e dei limiti della trasformazione, delle modalità della condivisione e della cooperazione nella costruzione e nella manutenzione della casa comune. Questo numero di «Filosofia e Teologia» ha solo il desiderio di contribuire ad annodare un po' le fila, e indicare alcuni nessi, per suggerire al pensiero qualche itinerario di riflessione.


Carla Danani