FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Fede. Interrogazioni sul credere

 

Questo fascicolo di «Filosofia e Teologia», curato dalla redazione romana, ospita un gruppo di contributi che si interrogano sul significato o approfondiscono la natura della ‘fede’, ovvero ripensano ciò che caratterizza e qualifica l’atto e l’atteggiamento del ‘credere’. Ciascuno dei contributi qui presentati percorre in maniera autonoma un proprio cammino di ricerca, nella consapevolezza della molteplicità di significati e della varietà di versioni che il termine «fede» (pystis, emunà, fides, belief, faith, Glaube, foi, fe) ha assunto e assume nella storia delle culture, delle spiritualità, delle religioni, e delle loro espressioni riflesse o ‘scientifiche’, che in Occidente si chiamano abitualmente filosofia e teologia. Troviamo perciò nel seguito dapprima una serie di indagini  (sezione Questioni) orientate piuttosto in senso ermeneutico-teoretico, che illustrano e svolgono la comprensione della fede nell’opera filosofica o teologica, o filosofico-teologica, di alcuni pensatori significativi della filosofia e/o della teologia dell’Occidente, da Tommaso d’Aquino a Lutero, ai filosofi tedeschi classici (da Jacobi a Schelling), fino a Kierkegaard, e a filosofi novecenteschi e contemporanei come Pierre Rousselot e Emanuele Severino. A queste indagini ne vengono associate altre (sezione Figure), orientate piuttosto in senso ricostruttivo-storico, che enucleano e presentano il significato che ha assunto o assume la fede in essenziali esperienze storico-spirituali e religiose, dal mondo letterario e giuridico romano, al Nuovo Testamento, alla tradizione ebraica, alla Alessandria del secondo e terzo secolo, alla tradizione coranica, fino alla riflessione teologica (cristiana) contemporanea. Naturalmente vanno riconosciuti subito il limite e la parzialità del contenuto teorico e storico che viene sviluppato nel fascicolo: molti altri e oltremodo significativi pensatori ed esperienze  avrebbero potuto, e probabilmente avrebbero dovuto, venire trattati. Le scelte effettuate sono il risultato, come si può ben intendere, di una (speriamo buona) mescolanza fra le competenze disponibili, lo spazio a disposizione e le esigenze che il fascicolo mantenesse un carattere aperto e plurale.

Pur con questi evidenti limiti speriamo tuttavia che questi contributi sollecitino il lettore a ‘interrogarsi’ di nuovo e con rinnovato spirito di indagine sulla natura di questa forma fondamentale dello spirito umano che ha il nome di fede, e che da questa interrogazione egli venga spinto ad arricchire, e forse anche a modificare in meglio la propria comprensione di questa forma della coscienza e dell’autocoscienza. Non si può infatti sottacere la circostanza che interrogarsi sulla fede (si condivida e si accolga o meno l’una o l’altra ‘fede storica’) è un atto o un atteggiamento in cui l’interrogante è implicato e coinvolto in prima persona, ovvero viene sollecitato a una (auto)attestazione personale del proprio rapporto emozionale e intellettuale con essa. Né è possibile ignorare che l’interrogarsi sulla fede avviene oggi in un contesto storico-spirituale specifico, in una «situazione spirituale del nostro tempo» (per riprendere una parola di Jaspers) segnata da una dialettica inconclusa e problematica fra processi di secolarizzazione e tendenze che chiameremmo di de-secolarizzazione. Rispetto a questa dialettica globale la coscienza religiosa e la comprensione della fede ‒ nella pluralità delle forme che esse assumono anche al di fuori delle comunità o esperienze religiose storiche ‒ sono condotte a ripensare radicalmente se stesse. In particolare sono sollecitate al ripensamento radicale, anche attraverso un rinnovato dialogo e contaminazione reciproca (oggi forse meno vivi che in un passato non troppo remoto), le espressioni cosiddette ‘scientifiche’ della (plurale e pluralistica) coscienza religiosa, ovvero in Occidente la filosofia e la teologia. 

Dai contributi ospitati in questo quaderno di «Filosofia e Teologia» il lettore potrà percepire e apprezzare la varietà di significati, la pluralità di relazioni, la molteplicità di incarnazioni, la differenza di accentuazioni che, nelle diverse teorie e esperienze (senza dubbio almeno in quelle qui prese in esame), ha assunto e assume il ‘fenomeno’, o l’‘evento’, l’abito e l’atto, della fede. Naturalmente può sorgere spontanea la domanda se da questa pluralità di figure non si lasci enucleare qualche aspetto o carattere, che possa cooperare, stimolare o orientare verso una rinnovata comprensione della fede, come concetto ed esperienza, all’altezza delle sfide religiose ed etiche del nostro tempo.                                                           

In una fortunata opera della fine degli anni Sessanta del Novecento, la Introduzione al cristianesimo, Joseph Ratzinger enucleava due significati della fede (religiosa), che possono riuscire interessanti anche in un’ottica ecumenica, interreligiosa, e universalmente filosofica. Per questo vengono qui brevemente evocati. In una prima accezione la fede viene caratterizzata come una «trasvolata, un balzo spiccato su un abisso infinito, cioè fuori dal mondo afferrabile che si presenta all’uomo». Nella seconda accezione ‒ rinviando a Isaia, 7,9: «Se non crederete, non avrete stabilità» – la fede viene compresa come uno ‘stare’, un mantenersi uniti a Dio tramite cui l’uomo acquista un solido appoggio nella vita. 

Un salto oltre l’apparire fattuale e sopra l’abisso fra infinito e finito; uno stare in Dio: così viene considerata la fede nella sua forma a un tempo concreta e paradossale, che connette il salto e lo stare, e che unifica in se stessa un movimento piuttosto ‘teologico’ e un movimento piuttosto ‘antropologico’. Qui emerge una tensione che, in figure diverse, attraversa molti contributi ospitati in questo fascicolo. Credere è uno ‘stare’, un ‘poggiare’ dopo un salto e attraverso di esso; fede è allora certezza conquistata attraverso il paradosso, per riprendere concetti di assonanza kierkegaardiana.  O con altre formulazioni, piuttosto debitrici ad Agostino: fede è coscienza concreta del Dio trascendente e vicino, intimo a noi più di noi stessi.  Fede è sapere che siamo, ovvero esistiamo di fronte a Dio ‒ termine quest’ultimo con cui qui, uno verbo, alludiamo alla realtà stessa dell’originario.   

Ciò che chiamiamo fede è allora una forma originale e specifica dello spirito umano, né superiore né inferiore alla scientificità (episteme), ma distinta da essa. Ciò non significa naturalmente escludere l’intelletto, ma significa che nel credere l’intelletto non viene isolato e rimane in unità con tutto ciò che siamo. Agostino nel  De utilitate credendi (XI 25) accentua la natura dialettica del rapporto fede-intelletto: «Chi comprende, crede anche; anche colui che opina crede, ma non ognuno che crede, comprende, e nessuno che opina comprende». 

Secondo una tradizione rabbinica per fare bisogna credere, ma per credere in modo autentico bisogna conoscere. La fede ha a che fare con quello stato profondo della coscienza, con quella unità originaria dell’animo, in cui conoscenza e volontà sono uno. Da qui un’altra tensione che attraversa la auto-comprensione della fede, e che risalta attraverso i contributi del fascicolo, una tensione fra il momento pratico-affettivo dell’affidamento e della ‘fiducia’ (affectus fidei!), e il momento intellettuale della ‘credenza’ e del tener-per-vero, cioè della convinzione. 

 Infine, la esperienza e il sapersi della ‘fede’ introducono una tensione, uno scarto, una differenza, un urto nei confronti di una auto-comprensione semplicemente ‘naturale’ dell’umano – tensione, scarto, differenza, urto che non dovrebbero affatto venire indeboliti da prospettive troppo armonizzanti e concordistiche. Qui emerge un ulteriore aspetto che attraversa e qualifica vari contributi del fascicolo. La fede può affermarsi nella sua autenticità solo attraverso «il crogiolo del dubbio» (Dostoevskij). All’‘ombra del nichilismo’ la professione di una fede religiosa e l’appartenenza a una comunità non potrà assumere le fattezze né di un conformismo rigidamente dogmatico né quelle di una religiosità secolarizzata, ignari del nichilismo e della crisi. Dovrà avere invece – per riprendere una espressione di Luigi Pareyson ‒ un carattere «conflittuale e problematico». Ciò in due sensi: nel senso che dovrà mettere in questione la chiusura dogmatica di ogni ‘naturalismo’ che si pretenda scientifico e rimuovere i divieti che, non le scienze, ma un secolarismo (improprio) delle scienze eleva contro la religione; e nel senso che una concezione della fede che intenda porsi come ‘contemporanea’ sul piano assiologico non può non trovare l’ateismo e il nichilismo come possibilità, la cui considerazione e il cui ‘superamento’ critico-dialettico sono essenziali – secondo una centrale tesi di Pareyson ‒ per la stessa affermazione di un senso primo e ultimo del mondo, ossia per la fede come ‘attestazione ontologica’. D’altra parte, qui non regna nessuna ‘necessità’ logica o fattuale. La fede è e resta ‘possibilità’ esistenziale, che come tale è sempre esposta al rischio e alla presenza di un ‘negativo’ irriducibile.   

 


Massimo Giuliani - Marco Ivaldo - Gaetano Lettieri