Fascicolo XXXIV (2020), 2, Dell'inizio / Editoriale

Enrico GUGLIELMINETTI

Chiedere scusa per iniziare 

La novità del suono e ‘l grande lume

(Dante)

Der Nordost wehet

Der liebste unter den Winden mir

(Hölderlin)


I libri di storia riportano la vicenda del ‘Balilla’ di Genova, che innescò la rivolta contro gli Austriaci al grido: Che, l’inse? Il verbo – che corrisponderebbe grosso modo all’italiano «incignare» – significa «dare inizio a qualcosa», e, nel suo uso politico, suggerisce una solidarietà profonda tra l’inizio e la rivolta, tra inizio e rottura (/cesura).

Iniziare significa sempre anche strappare. L’inizio rappresenta una benedizione, in quanto apportatore di novità, ma è anche un momento pericoloso, perché non vi sarebbe novità, se qualcosa non venisse archiviato. L’inizio è purezza, una fonte di acqua cristallina cui attingere nei momenti di stanchezza, ma anche barbarie, forza cieca che distrugge la civiltà.

Per questo plesso di motivi le religioni – e forse le culture in generale – insieme esaltano e vituperano l’inizio. Cristo è apportatore di vita nuova, irrompe nel mondo come una novità radicale, ma la sua novità non deve significare né la cancellazione della Legge, né la distruzione del mondo. La chiesa, una volta riportato la propria vittoria sull’Antico, ricupera l’Antico, a costo di compromessi, doppiezze e ipocrisie.

L’inizio è sfrontato, giustifica se stesso. Ci vuole coraggio, per iniziare. In quanto si autogiustifica, l’inizio ha sempre un tratto di presunzione. Ogni inizio rischia di essere ingiusto, ma sarebbe ingiusto impedire l’inizio. L’inizio, a meno che venga impedito o impedisca se stesso[1], sembra quindi avere due strade: o la semplice posizione di sé e la negazione del vecchio, oppure la posizione di sé unitamente a un chiedere scusa, a un onorare il passato, a un cercarne (magari a ritardo) la fraternità. Talora le due posizioni si alternano, e ciò che pareva rifiutare qualunque giustificazione che non provenisse da sé incomincia a scusarsi, come se l’auto-posizione fosse indistricabile da una sovra-esposizione che risulterebbe, alla lunga, intenibile[2].

Gli articoli raccolti in questo fascicolo illuminano i due versanti dell’inizio: il suo orgoglio (che può diventare arroganza) e la sua umiltà (che può farsi rinuncia o pigrizia del cuore); la sua libertà, insofferente di giustificazioni, e la sua ragionevolezza, bisognosa di esse; la sua autarchia, che divide il tempo in prima e dopo di sé, e la sua ricerca attiva di fraternità, quasi che l’inizio fosse troppo opprimente per essere portato da solo, perfino da un dio; la sua inescusabilità (l’inizio c’è perché c’è, come un significato riottoso), e il suo interpretarsi come inizio scusato – scusato, per esempio, da uno stato di necessità.

Per un verso dunque l’inizio non sente ragioni, per l’altro si propone esso stesso come figura della ragione, perché restare al vecchio sarebbe irrazionale; per un verso si pone come assoluto, distogliendosi da un legame, perl’altro cerca attivamente una fraternità – sia questa la fraternità di altri inizi lontani nel tempo, oppure la comunanza con ciò che sta a valle dell’inizio (dopo di esso, ma forse anche prima di esso) e non può vantarne la radicalità.

Ugualmente aporetico è il rapporto dell’inizio con la determinazione. Per un verso l’inizio è sempre determinato (è – marxianamente – negazione determinata), per l’altro è come una riserva d’indeterminatezza, che smentisce e confuta dall’interno ogni determinazione storica; per un verso l’inizio è semi-determinato, perché solo la prosecuzione decide l’anima di un inizio, per l’altro è determinato come ciò che esso non è, rivestendosi dapprincipio di un tratto estraneo, che – ad ogni inizio –vela o nasconde il suo tratto proprio.

Seguendo infatti un suggerimento di Schelling, possiamo interpretare il racconto di I Re 19 non tanto nel senso che Dio non sia nel terremoto, quanto piuttosto nel senso che il terremoto – come il quale Dio dapprincipio si traveste – non ne rappresenti la più autentica fisionomia, che sarebbe invece restituita dal venticello leggero. Avere pazienza con l’inizio è dunque anche dargli la possibilità di smentire o perlomeno di rettificare quell’apparenza di incompatibilità con la finitezza (di terremoto, appunto) che gli è forse inevitabilmente connessa. Per questo, nella difficile opera di discernimento degli spiriti dell’inizio, il rapporto col presente – e più in generale con la nostra fragilità – appare così importante, nel convincimento che il vento tanto più saprà durevolmente infiammare i cuori, quanto meno – per potente che sia – si limiterà a fare terra bruciata.

Il più difficile sembra dunque lasciare la porta spalancata alla novità dell’inizio, senza cadere vittime della sua paranoia; sopportarne la caoticità e il dolore, ma nella speranza che la negatività sia solo il modo con cui l’inizio si presenta, non la sua intenzione ultima; stare dalla parte dell’inizio – impetuoso com’è – fiduciosi che non si tratti di un impeto di distruzione[3]. Difficilmente l’inizio può essere gentile, ma ai suoi discepoli è richiesta invece gentilezza come un’ipoteca sulla fisionomia profonda dell’inizio, dapprincipio nascosta, come inizio-di-pace. All’inizio, l’inizio non ha nome, o ha tutti i nomi. Per questo l’inizio ha bisogno di interpreti e di nominatori, che ne lascino emergere il volto di generosità e dolcezza. Come l’Angelo che sorprende Giacobbe nella notte, l’inizio è innanzitutto esperimentato come un aggressore. Che questa aggressione sia per la vita, e non per la morte, è quell’essenza dell’inizio, che all’inizio non può risaltare. Per questo, ci vuole fede per capire l’inizio, e l’inizio è ciò che deve innanzitutto essere compreso. L’inizio, che non si dà subito a comprendere per quello che è, non ha bisogno di fraintendimenti alla lettera, ma di sequela nello spirito.

 

L’attenzione alla dimensione umile del tempo, è forse la marca caratteristica di un inizio di liberazione. Molti degli articoli del presente fascicolo sottolineano questo elemento sorprendente dell’inizio, che – quanto più è assoluto – tanto più sembra concedere e forse addirittura pretendere un indugio sul tempo, un’umiltà, una pazienza.

Anche là dove è abissale, la riflessione sull’inizio non deve perdere il contatto con la concretezza. Marcheselli mostra per esempio come il termine archē, in molti luoghi degli scritti giovannei, indichi «un momento intra-storico», riferendosi a «quell’inizio che fu il ministero di Gesù», oppure al suo prolungamento, cioè a «quell’inizio che è la testimonianza del discepolo amato, da cui ha origine la comunità giovannea». In questi passi, «l’archē è il tempo che Gesù e i suoi hanno trascorso insieme, il tempo in cui egli è stato con loro […] ed essi con lui». Parimenti – secondo Marcheselli – la lettura di archē in Gv 1,1 «nei termini di un principio al di fuori del tempo», pur prevalente, «non trova appigli chiari in nessun altro uso giovanneo». È invece plausibile pensare che «Giovanni riprenda precisamente la Genesi, per affermare che in quel principio, quello di cui parla il primo libro della Bibbia, il Logos c’era già». Il che non toglie che, com’è chiarito dal terzo stico, il Logos sia Dio, e sia dunque caratterizzato da una «preesistenza assoluta».

Anche la filosofia, nel riflettere sull’inizio, non deve dimenticare la situazione concreta. A partire da una citazione di Omero – «Prendete il cibo e gustatelo: dopo, quando vi sarete saziati, allora vi chiederemo chi siete» –, Perone mostra come l’assurda violenza di un interrogatorio, che imponesse all’ospite di declinare le proprie generalità prima di condividere con lui un momento di amicizia, sarebbe non solo eticamente, ma anche teoreticamente fallimentare. Ma non è proprio qualcosa del genere che fanno le filosofie non-ermeneutiche, nella misura in cui pretendano di forzare l’accesso dell’inizio o della fine, a partire da una iniziale rimozione dell’orizzonte concreto della vita e dell’esperienza? Una qualche violenza interrogatoria sembra propria sia delle prassi sia delle scritture che, forcludendo il presente (appunto lo spazio dell’ospitalità possibile), cerchino di andare subito alla conquista dell’inizio o della fine. Viceversa, l’ermeneutica non va disgiunta da una «strategia geniale che rinuncia a porre troppo presto la domanda» sull’origine, e proprio questo ritardo le consente di «sporgersi oltre di sé» – verso l’inizio come vita nuova[4].

La questione del rapporto tra inizio assoluto e prosecuzione della vita si pone anche a proposito dell’initium fidei. Secondo il Concilio di Orange – in cui prevalse la corrente agostiniana contro quella pelagiana, come ricorda Rostagno – coloro che pensano che la fede sia naturale finiscono in qualche modo per definire come ‘fedeli’ tutti coloro che sono estranei alla Chiesa di Cristo. Rostagno cerca una via media tra le due impostazioni, o più precisamente una «terza soluzione». Per un verso – egli ammette – c’è un che di pelagiano nella teologia novecentesca, e a buon diritto, dal momento che la soluzione agostiniana «avrà anche tragiche conseguenze. In essa è in atto una esclusione che può degenerare – e nel corso dei secoli degenera – in condanne, roghi, violenza, intolleranza». Per l’altro la «posizione antipelagiana di Agostino può costituire ancor sempre un tema d’interesse». In particolare, essa permette di non cadere vittima di un’ideologia della naturale disposizione al bene da parte dell’uomo, che la fede non farebbe che proseguire in una linea ininterrotta di continuità. A partire dall’analisi dell’opera teologica di Johann Haar, Rostagno mostra come la questione dell’inchoatio fidei restituisca l’uomo al proprio presente concreto, non camuffato o abbellito ideologicamente. Come possiamo affermare con Haar, «il Dio presente valorizza il tempo della vita». «L’“oggi” vive il tempo della lotta, nella cui oscurità domina la fides».

Il richiamo alla concretezza è altresì incorporato nell’interpretazione dell’inizio come nascita. Il contributo di Mancini è dedicato a tre filosofe, che hanno tracciato percorsi di ‘metafisica concreta’, ponendo al centro del loro pensiero il paradigma della nascita, come via per concepire l’inizio nella sua intrinseca struttura relazionale. Si tratta innanzitutto di HannahArendt, secondo cui «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare»; quindi di María Zambrano, che contrappone nascere e disnascere, riuscita dell’esistenza come completamento della propria nascita e delirio come elusione della vocazione a diventare sé fino in fondo; infine di Luce Irigaray, che si sofferma sulla necessità e i pericoli del viaggio personale per completare la nascita, nella direzione di «una filosofia che adotti il paradigma della nascita senza cadere nel biologismo».

Il riferimento alla nascita, al «grido del neonato che si distacca dalla madre», è centrale pure in Heritier, che vi coglie non solo «l’inizio individuale, ma anche l’origine di ogni diritto». C’è un nesso, infatti, tra diritto e separazione. Heritier mostra come «il problema dell’origine e della sua distinzione dall’inizio» – qual è articolato nella prospettiva teologica di Paul Beauchamp e in quella filosofica di Natoli – non sia «estraneo al pensiero giuridico». Anche per Heritier, «dell’origine inaccessibile si parla a partire da un punto storico preciso». Soltanto «la separazione tra origine e inizio, tra origine e inizi» evita la caduta in quella forma di «psicosi», che consiste appunto nella pretesa diabolica di un inizio tra gli altri di affermare la propria coincidenza con l’Assoluto. Una legge che pretendesse di valere come la compiuta e definitiva oggettivazione della giustizia, chiudendo ogni spazio di interpretazione possibile, avrebbe qualcosa di disumano ­ – bloccherebbe cioè il movimento stesso della generazione del nuovo, negando la costitutiva pluralità degli inizi e inquinando così la fonte di ogni diritto. È invece necessario «non esaurire l’intero discorso del diritto entro le forme della legge posta, rinviando a una dimensione storica evolutiva che si muove verso il futuro a partire da inizi necessariamente plurali, legati alle prospettive molteplici delle differenti culture».

Le Questioni si concludono con l’articolo di Bernardi, che rilancia la questione dell’intrattabilità dell’inizio, scandendo le tappe di una breve storia del caos: se – nel mito – ogni inizio si radica nel caos, la filosofia equivale a un’«opera di rimozione del caos» nel nome dell’essere, che si traduce di fatto «in un marginalizzante oscuramento dell’informe caos originario», a vantaggio della stabilitas della forma. A sua volta, il cristianesimo occidentale compie l’opera razionalizzatrice della filosofia e procede – con Agostino – a «una rimozione radicale del caos», illudendosi così di avere archiviato la questione.

Passando alle Figure, il difficile rapporto tra l’inizio e ciò che viene iniziato assume in Cacciari la forma della ‘crisi’. Nella ricostruzione di De Candia, Cacciari ritorna a Schelling come «colui che si è opposto in modo radicale all’identificazione hegeliana fra l’Inizio (Anfang) e Iniziante (Anfangende)». L’Inizio è per Cacciari «non solo potenza libera da ogni determinazione, ma anche libera dalla necessità del proprio stesso determinarsi» e manifestarsi. Ne deriva che «la libertà divina, l’essere, la libertà umana non solo avrebbero la propria condizione di possibilità nell’Inizio, ma che essi non sono mai via dall’Inizio». In questo modo, nella lettura di De Candia, «la ‘crisi’ assurge quasi a trascendentale della metafisica cacciariana». L’inizio è – insomma – un modo per risalire oltre Dio e oltre il Bene, dal momento che «Dio non rappresenta per Cacciari l’Inizio, ma solo l’Iniziante», mentre occorre pensare l’inizio come sottratto «a qualsiasi forma di determinazione, alla quale invece lo costringerebbe il concetto di Dio come causa prima o di bonum (per sua natura) effusivum sui».

Sembra porsi così di nuovo il problema se l’inizio si dia meglio a comprendere in una rincorsa verso una sempre maggiore radicalizzazione, o nell’intreccio di inizio e iniziato.

In Benjamin l’inizio è interruzione: si tratta di scardinare il continuum della storia, di interrompere il corso del mondo con «un atto rivoluzionario chiamato Jetztzeit». Köhn mostra come l’inizio – in Benjamin – si costituisca però come una «frattura incompleta nel continuum della storia». Ciò che Benjamin chiama «origine» (Ursprung), e che costituisce la «potenza per l’inizio», implica sempre anche un ripristino, una ripresa del passato. Questa ripresa non implica però continuità, ed è questa la differenza tra la Jetzt-zeit di Benjamin e lo Jetzt-sein di Richard Hönigswald (di cui la prima costituisce una variante interruttiva), connotato invece da una forte insistenza sull’idea di continuità: lo ‘Jetzt’ des Erlebens di Hönigswald è infatti – diversamente che in Benjamin – un «continuo presente». Esistono forti analogie e altrettanto forti divergenze tra i due concetti, così come del resto fra i due pensatori, entrambi perseguitati dal nazismo.

Un’analisi del concetto di ‘inizio’ nella Filosofia della Rivelazione di Schelling mostra insieme l’indispensabilità e la pericolosità dell’inizio (Guglielminetti). Il Figlio – nella prospettiva di Schelling – non è tanto colui che inizia, quanto colui che rettifica l’inizio nel senso di liberarlo dalla tendenza all’esclusione. L’inizio vero e proprio è demandato alla prima potenza, non alla seconda. Nella sistematica di Schelling, è il Fondamento la potenza che inizia: c’è qualcosa di violento, di oscuro, di brutale in chi inizia. C’è qualcosa di gentile, di dolce nella seconda potenza, che riconduce l’inizio verso la luce. Il Figlio non diventa con ciò un detrattore dell’inizio. Egli propriamente né inizia né rifiuta l’inizio, lo qualifica. Inizio è anche – in Schelling – lo «stupore della ragione», ma l’ammutolimento che ne consegue non è mera afasia, ma attesa di una parola di verità, che libera.

Una piena qualificazione dell’inizio in senso cristiano è infine all’opera nel pensiero di Malebranche, cui è dedicato l’articolo di Cortese. Malebranches’interroga «sul movente per il quale Dio, che non ha bisogno di nulla e che nulla desidera, sceglie di creare». Si tratta di «una volontà che non ha alla sua base un desiderio, una mancanza, ma trova la sua origine in lui stesso, nella profondità del suo essere trinitario», «perché l’esistenza del mondo dipende dai decreti divini che sono assolutamente liberi rispetto al mondo stesso». Malebranche insiste sull’«impossibilità di ogni deduzione necessaria dell’esistenza del mondo». «Dio agisce per la sua gloria»: «come Cristo è per Dio, e la ragione dell’Incarnazione è la gloria di Dio, così l’uomo è per Cristo, e il motivo della sua creazione e del suo cammino storico trova compimento nella costruzione della Chiesa spirituale». In tal modo – osserva Cortese – «con la guida di Malebranche siamo passati dall’analisi dell’atto originario di Dio che con la creazione pone tutte le cose, allo sguardo sull’approdo finale che scaturisce dall’incipit divino».

 

[1] È tutt’altro che raro. Si può decidere di non cominciare per eccesso di rispetto (chi potrà dire se questo eccesso non sia virtù?), ci si può vietare un inizio per motivi etici.

[2] Il nostro Balilla non chiede scusa, ma cerca comunque un’approvazione, chiedendo ai compagni il permesso d’incominciare: Che, la comincio? E non è il rimando strutturale al futuro (a un futuro di beneficiari ma – implicitamente – sempre anche di emendatori) un’altra forma di umiltà nell’inizio?

[3]E viceversa: nominare o specificare l’inizio, ma senza tradirlo.

[4]Non dunque una deduttività astratta (violenta), impaziente del presente, e nemmeno l’isteria adolescenziale di un presente eternizzato, su cui collassino l’inizio e la fine (come nella scrittura di Proust), né una borghese ricerca del comfort, che nel presente si accomodi come in una poltrona, ma l’inquietudine dell’infanzia, che cerca di prolungare la veglia condivisa sapendo che viene la notte, memoriale dell’inizio assoluto della vita, è la cifra di questo pensiero, che – proprio perché non si posiziona immediatamente all’inizio – può arrischiare una dizione non oppressiva di esso.