Fascicolo XXXV (2021), 2, Sull’ingiustizia / Editoriale

Sull’ingiustizia

Il concetto originario e positivo è quello dell’ ingiusto; il suo contrario, il giusto, non è che un concetto derivato e negativo. [...] non si sarebbe mai potuto parlare di diritto, se non esistesse l’ingiustizia.

Arthur Schopenhauer[1]

 

Se la filosofia è, o è anche, ‒ hegelianamente ‒ una ripresa del proprio tempo nel pensiero, a motivare la scelta di questo tema sono state le impellenze dell’epoca. Qualcosa che giorno dopo giorno vieppiù s’impone e non è possibile non vedere o, ancora peggio, da cui non è possibile volgere lo sguardo. Lo stato del mondo è allarmante: è un teatro di guerra. Una guerra mondiale, come è stato detto, a pezzetti: non frontale, ma diffusa e per di più endemica. Guerre d’interessi, fondamentaliste, terroriste ‒ e qui sono chiamate in causa le religioni e il loro ruolo. Guerre che producono miserie e da cui sono anche prodotte. Di qui migrazioni forzate, campi profughi, che sono campi di detenzione; e poi, le violenze, gli stupri, lo sfruttamento di forza lavoro priva di tutele. Quindi fuga dalle guerre, migrazioni per fame con le loro disastrose e pressoché quotidiane conseguenze di cui emblema è divenuto il mediterraneo-tomba. Agli annegati non si dovrebbe fare l’abitudine, eppure capita. Dopo alcune reazioni emotive ‒ provocate magari da una foto ‒ alla seconda, alla terza subentra l’indifferenza. Si aggiungano a questo le recenti crisi economiche provocate, in larga parte, dalla speculazione finanziaria, da un capitalismo selvaggio che ha impoverito molti, generato nuovi poveri, accresciute in modo vertiginoso le diseguaglianze. Trasversali: tra continenti, Stati e dentro gli Stati stessi.

Inoltre, si rendono sempre più evidenti i danni inferti alla natura dall’indiscriminato intervento umano, dal suo abuso: l’occupazione degli spazi, l’impiego irresponsabile di quella stessa tecnica che è stato un fattore determinante dell’emancipazione umana, dell’allentamento delle catene della necessità. Danni procurati da accelerazioni forzate, da scelte unilaterali senza tenere conto delle controfinalità che ne potevano conseguire. Di qui gli ormai noti effetti: l’aumento di CO2, il surriscaldamento terrestre, l’innalzamento dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, il dissesto complessivo dell’ambiente. Un dissesto – è bene non dimenticarlo ‒ in cui a diverso titolo e con diverso peso siamo tutti coinvolti, magari. Ognuno se ne tira fuori come se non c’entrasse, trascurando che la questione ambientale dipende dalla tipologia dei nostri consumi, da standard di vita che siamo ben lungi dal ridimensionare. Di questo dissesto patiscono maggiormente i poveri; ma anche gli abbienti non ne vanno esenti perché il mondo è casa comune. E se, come dice il Vangelo, il sole sorge sui buoni e sui cattivi, l’inquinamento del pari lo patiscono tutti. Erano queste catastrofi annunciate, ma di queste oggi c’è una più diffusa consapevolezza perché ormai sono più eclatanti gli effetti: basti considerare le mutazioni climatiche che cominciamo a sentire sulla nostra pelle. Ciò spiega perché la questione ambientale è all’ordine del giorno ed è divenuta dominante. Che si sia pro o contro è il capitolo primo dell’agenda mondiale: attiva movimenti, impegna governi. Si potrebbe procedere nell’elenco degli squilibri, della disparità che producono; d’altra parte questo paesaggio lo ha ben disegnato il Papa nella sua Laudato si’, passaggio che apre anche l’enciclica Fratelli tutti. Non è l’unica voce, ma ha comunque contribuito ad una riflessione sullo stato del mondo meno distratta e l’ha imposta nel dibattito pubblico. Come si vede, lo stato del mondo è tutt’altro che tranquillizzante: infatti, a fronte dell’accrescimento della ricchezza, è aumentata la divaricazione sociale, si è incrementato il tasso d’esclusione. È questa una cogenza del presente e solleva, inevitabilmente “questioni di giustizia” e non in astratto. A rendere, infine la questione della giustizia ancora più attuale è la congiuntura drammatica in cui ci siamo venuti a trovare e in cui stiamo faticosamente vivendo: il Covid 19. Ora, se c’è una cosa che quest’epidemia sta disvelando nella sua interezza sono le diseguaglianze. Non è affatto vero che siamo nella stessa barca: siamo, caso mai, nella medesima tempesta ma ognuno naviga con la sua e diversamente armata. E diversi sono i destini.

In forza della cogenza che il tempo impone, ci è parso opportuno affrontare la questione della giustizia non certo nella sua interezza – cosa impossibile – ma per tagli, evidenziando alcuni dei suoi diversi profili. «La riflessione intorno alla giustizia ‒ come nota Cosi nel suo articolo – ha una storia plurimillenaria», ma ciò per il semplice fatto che la giustizia contrassegna la vita umana associata perché la istituisce e insieme ne garantisce e preserva il legame. Sotto quest’aspetto resta insuperata la definizione che ne dà Aristotele: la giustizia «è una virtù massimamente perfetta perché consiste nell’esercizio della virtù perfetta, e perfetta perché colui che la possiede è capace di esercitare la virtù anche verso il prossimo e non solo verso se stesso […] Per questo stesso motivo la giustizia sembra essere l’unica virtù che costituisce un bene anche per gli altri, poiché è rivolta al prossimo; infatti il giusto compie azioni utili ad un altro individuo, sia esso uno che detiene il potere, o un membro della comunità» (E.N.V, 1, 1130 a 2-4). Data questa definizione che ci permette di identificarla, la giustizia viene posta in questione da sempre e per diverse ragioni. Intanto perché può – aristotelicamente ‒ dirsi in molti modi ed ha, dunque, una sua flessione interna che permette di considerarla sotto i suoi diversi aspetti. In secondo luogo, la giustizia vien posta sempre in questione, perché col variare delle condizioni sociali variano tra gli uomini le reciproche aspettative e perciò i modi del loro stesso stare insieme. È, ormai, una notazione di scuola rilevare come nella storia umana – e per il suo più lungo tratto – l’ineguaglianza sia stata considerata un dato di natura, la schiavitù ovvia. Tutto ciò oggi risulta del tutto inconcepibile – e dico alla coscienza comune – e, al contrario, è data come un’evidenza di natura l’unità del genere umano. D’altra parte, l’uomo ha scoperto nella sua storia evolutiva dimensioni di sé ignote a lui stesso ed ha quindi modificato le modalità di rapportarsi a se stesso e agli altri. La giustizia è virtù allotria da sempre: attiene, infatti, ai rapporti con gli altri, che però vengono di volta in volta e contestualmente ridefiniti. Rapporti storicamente, tutt’altro che paritari dal momento che la scala sociale è stata – e per molti versi lo è ancora – un tratto caratterizzante della vita umana associata. Come identificarla? Cosa decide dei livelli d’inclusione e d’esclusione? La stirpe, il merito? Tutto sommato ‒ a ben vedere ‒ il criterio d’uguaglianza è una conquista piuttosto recente, anzi i diritti universali così tanto proclamati sono a tutt’oggi nel mondo ampiamente disattesi. Il principio d’uguaglianza è con evidenza frutto di una conquista e tuttavia – a ben osservare ‒ la stessa lotta per conquistarlo mostra nel fatto come il sentimento d’uguaglianza sia insito negli uomini: sia, se così si può dire, originario. Nessuno in nessun gruppo umano sopporta che qualcuno – ceto o individuo che sia – prevalga su di lui: si ribella o, caso mai, subisce, ma non lo accetta. Dalla lotta tra patrizi e plebei, questa dinamica di fondo è stata, nel corso della storia evolutiva dell’umanità, uno dei fattori motivazionali, unitamente certo ai mutamenti strutturali della società che ne ha progressivamente logorato gli assetti gerarchici e verticali. L’hegeliana lotta ‘servo-padrone’ è esemplarmente una lotta per il riconoscimento; a ben guardare, è una lotta per la parità o, meglio una lotta di cui la parità è una conseguenza. Non bisogna con superficialità accantonare l’affermazione di Marx che la storia è una storia di lotta di classe, che nel fatto significa lotta per l’uguaglianza. Cosa che le filosofie dell’alterità non devono trascurare. Potremmo dire che in questa lotta gli uomini scoprono che quanto hanno conquistato in fondo gli è proprio. L’uguaglianza non è un’astratta postulazione: è iscritta nella natura umana e sul piano degli affetti espressa controfattualmente negli stessi vizi. Si prenda l’invidia: come dice Spinoza è l’affetto che «gode del male altrui e si rattrista dell’altrui benessere (malo alterius gaudet , et contra ut ejusdem bono contristetur)» (Eth. P.III, p 24, sc.). Ebbene, l’invidia può essere paradossalmente spia di un’implicita istanza di giustizia nella forma di domanda: quanto quel che gli altri hanno ottenuto è meritato o dovuto? Quanto sottratto e rapinato agli altri? È certo un sentimento distruttivo ‒ e soprattutto autodistruttivo – ma sollecita al sospetto che l’ineguale non è legittimo. Cosi, nel suo articolo, dice bene quando scrive che nell’uomo sembra sussistere «universalmente diffusa e praticamente ineliminabile, una sorta di consapevolezza primaria e originaria dell’ingiusto: una forma di coscienza immediata del diritto violato, per certi versi analoga alla capacità di soffrire che è innata in ogni organismo senziente. Il principio essenziale alla sua stessa sopravvivenza».

L’uguaglianza guadagnata nella lotta si è imposta nel tempo come un’evidenza di natura e variamente motivata a seconda delle culture e delle epoche. Emerge nella Bibbia ove l’alleanza è sottoscritta individualmente, ma è stipulata con il popolo e il popolo è il destinatario della promessa. Questa viene ribadita nel cristianesimo, ove il messaggio di salvezza è destinato soprattutto ai poveri ed è perfettamente sancita una legge di compensazione: i primi gli ultimi, gli ultimi i primi; e poi fratelli perché figli di un unico padre e riscattati dal medesimo sangue. Lo schema biblico viene poi a secolarizzarsi nella forma: creati liberi e uguali. La giustizia è, in fondo, la mediazione e il punto d’equilibrio tra libertà ed eguaglianza: per un verso a tutela delle prerogative dei singoli, per altro a evitare la prevaricazione degli uni su gli altri, dei pochi sui molti. Insomma a garanzia di tutti – diritti universali – e di ognuno – degli individui singolarmente presi e delle loro prerogative personali. Eguaglianza, quindi, nella sua versione formale e liberale, eguaglianza in quella materiale e sociale. Ma perché tutto questo non resti una formulazione astratta l’istanza di giustizia meglio appare ove essa viene negata: a guardare la platea degli esclusi, dei marginali, dei reietti ne diviene intollerabile l’assenza. Specie oggi, ove pare che parte dell’umanità venga, con cieco cinismo e impunemente, sacrificata a vantaggio di pochi.

È vero, le ingiustizie nel mondo non sono sparite, eppure se si guarda indietro le conquiste sono evidenti: la polarità povertà-ricchezza, seppure alta, è diminuita: popolazioni intere sono uscite dalla fame, sono stati guadagnati spazi di libertà e di mobilità sociale; si sono estese le tutele, si è ampliato l’accesso al sapere. Le sopraffazioni, le violenze, le stragi, la corruzione, tutte cose che un tempo restavano celate ‒ o coperte ‒ oggi giungono alla conoscenza dell’opinione pubblica: vengono denunciate, entrano nell’agenda politica. Con i nuovi media il flusso d’informazioni è divenuto continuo, anche se a preoccupare è l’inflazione, l’eccesso: la capacità media di controllare le fonti non è sempre proporzionata alla quantità d’informazioni. Proliferano le fake news in un flusso spesso legato ad una ‘recezione passiva’ che alla fine più che svelare la realtà innalza una cortina fumogena a coprirla. D’altra parte nella società contemporanea uno dei luoghi massimi di diseguaglianza è dato dal monopolio/oligopolio della rete che influenza i comportamenti, orienta i mercati come ben si mostra in questo fascicolo ove si tratta della «finanziarizzazione e digitalizzazione dell’economia» (Chesney). Si può constatare che l’innalzata possibilità di conoscenza che offre la rete può convertirsi in un suo uso fatuo, un’omologazione ove l’equivalenza riduce la percezione della rilevanza. Ancora una volta, ne resta vittima chi è meno formato e perciò più manipolabile. Cosa non di poco conto per le sorti della democrazia.

Ebbene, come diceva Merleau-Ponty, il mondo è ambiguo e non ha mai cessato d’esserlo ed ogni conquista ha sempre il suo rovescio. Lo stesso si può dire sul senso di giustizia: per un verso è dato costatare una diffusa indifferenza ‒ quasi una pigrizia morale ‒ma a fronte di questo si può registrare una più alta sensibilità all’ingiustizia: fatti un tempo ignorati o dati per scontati – vedi ad esempio la sottovalutazione del femminicidio spesso giustificato – oggi provocano una reazione immediata, suscitano indignazione. La discriminazione razziale un tempo legittimata o comunque subita – e in talune circostanze pare risorga – oggi è universalmente condannata e i diritti quand’anche violati possono essere ‒ soprattutto quando negati – rivendicati. Le mobilitazioni sociali, i vari movimenti di protesta ne danno conferma. Alla fine, stiamo meglio o peggio? Bisogna porre diversamente la questione né ci si può attestare sulla kantiana progressione dell’umanità verso il meglio; anzi in alcune circostanze parrebbe di volgere al peggio. Ma ogni epoca ha avuto il suo meglio e i suoi deficit e se è vero che bisogna difendere quel che si è guadagnato, si è soprattutto chiamati a confrontarsi con le istanze proprie dell’epoca ‒ e non confrontabili con le precedenti ‒ con le sue crepe e portarsi all’altezza del compito. Quanto, poi, alla nostra sensibilità all’ingiustizia se ne può trovare la misura nell’intollerabilità, nel disturbo quasi fisico ove in qualsiasi momento e modo la vita – per dirla con Adorno ‒ venga offesa. Si parta quindi dall’ingiustizia.

Nobile, nel suo contributo, sottolinea come Aristotele, pur ritenendo che solo una preliminare familiarità con la giustizia sia condizione per determinare il giusto e l’ingiusto, «sceglie di approssimare il giusto e la giustizia muovendo dall’esperienza della loro negazione». Nel medesimo saggio, si illustra poi come le società tradizionali hanno formulato e dato soluzione alle questioni della giustizia e mostra come oggi non siano più adeguate. Le relazioni umane sono sempre relazioni di aspettative e perciò sempre allocate. Ora le aspettative sono per definizione reciproche, ma vi è un tipo specifico di aspettativa: i partnersi attendono e pretendono un rapporto di parità o comunque bilanciato a seconda dei contesti. Esigono soprattutto un ‘reciproco riconoscimento’. Intorno a questo si scatenano conflitti ed è necessario reperire soluzioni che rendano convergenti le aspettative. Si tratta di valutare quanto le teorie della giustizia formulate in questi anni possiedano una rappresentazione della società capace di cogliere le linee di demarcazione tra inclusi ed esclusi ove ‒ scrive Nobile – «i primi valgono come “persone” mentre sul versante dell’esclusione tendono a rilevare solo più come “corpi”». Con le conseguenze che constatiamo.

La giustizia è, in fondo, il punto di equilibrio tra eguaglianza e libertà; tra il ‘tutti’ e l’ognuno, tra il comune e il proprio: è parità di diritti ed insieme valorizzazione delle differenze. Aristotelicamente è una virtù relazionale. A partire da questo assunto, Cosi prende qui in considerazione le diverse forme di obbligazione: quella morale e quella giuridica. Dall’antica coalescenza tra morale e diritto alla progressiva differenziazione tra le due sfere. A seguire, l’ulteriore differenziazione entro la medesima sfera del diritto, il suo strutturarsi quale sistema normativo, strumento sine qua non per rendere la giustizia effettiva, realizzarla storicamente. Nel presente numero si procede ad una sorta di visitazione dei luoghi dell’ingiustizia: quella sociale al tempo della finanziarizzazione e digitalizzazione dell’economia; quella che si potrebbe definire una geopolitica dell’ingiustizia: la fame e le guerre. Una visitazione, quindi, dei luoghi della pena, del carcere ingiusto, afflittivo che a sua volta trasforma il colpevole in vittima e lo perverte. Purtroppo prevale ancora una logica punitiva con un suo sottinteso vendicativo. Ora, come è noto, già secondo Costituzione il carcere deve essere funzionale al reinserimento, ma è possibile di più: una logica riparativa che mentre cerca una pacificazione del colpevole con la vittima permette al colpevole di contribuire con la sua azione a sanare le ferite della società operando a suo favore. Bisogna passare da una logica reattiva a una disposizione attiva.

Nel numero si attraversa, poi, il paesaggio della giustizia con affondi su questioni specifiche quali: l’ingiustizia di genere ‒ l’elevato tasso di esclusione che a tutt’oggi patisce l’universo femminile ‒; le minori opportunità offerte, il maggiore onore pagato per costi i sociali, e il Covid 19 ne sta dando alta conferma. La questione della giustizia è ampia e, come si diceva, si va qui per tagli e quindi: la giustizia nella Bibbia (una riflessione sulla violenza divina a partire da Esodo 15); e ancora, come la questione vien posta nella patristica (l’invettiva di Ambrogio contro la ricchezza – specificamente l’avarizia ‒ e sul suo preteso comunismo). Inoltre, topos classico della teologia è la storica controversia sulla giustificazione: se a salvare sia la grazia e quanto alla salvezza siano essenziali le opere. Ferrario prende avvio da come la questione si pone in Paolo, quindi come viene a formularsi in Lutero e infine in che termini la affronta Bonhoeffer ove la grazia può essere solo gratuita, ma non può, tuttavia, essere a buon mercato: esige il costoso impegno nella sequela. Gli altri interventi, non meno importanti, ma che qui per ragioni di spazio non possono venir richiamati analiticamente, concorrono a delineare il profilo della questione mettendone in luce alcuni tra i nodi principali.

La visitazione che si è fatta dei luoghi dell’ingiustizia ha mostrato quanto oggi non sia resa giustizia, quanto venga negata. Questo non permette alla filosofia di sottrarsi alle urgenze del presente, per cercare, e magari trovare, vie d’uscita. A partire dai suoi dilemmi. Ed è quello che qui si è cercato di fare.

 

Salvatore Natoli

 

[1] Die Welt als Wille und Vorstellung, Brockhaus, Leipzig 1819-1844, tr. it. di N. Palanga, G. Riconda e A. Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani con introduzione di G. Vattimo, Mondadori, Milano 1989, § 62, p. 477.