FILOSOFIA E TEOLOGIA
Sito ufficiale dell'Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia (AISFET)
+ | -

Lareligione civile è questione essenzialmente moderna. Solo quando, infatti, lo Stato appare come un prodotto della autonoma volontà umana e la dimensione politica si presenta come indipendente da ogni verità o autorità religiosa nasce il problema della (difficile) convivenza tra queste ultime e l'istituzione civile, ma nel contempo anche la possibilità – per alcuni la necessità – di approfittare della religione come risorsa o strumento politico. Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (Libro I, cap. 11) Machiavelli si appropria così, da interprete che apre il moderno, dell'esempio di Numa Pompilio, secondo re di Roma: «Numa […], trovando uno popolo ferocissimo e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà, e la costituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella repubblica». Secondo Machiavelli «La religione, usata bene» (ivi, libro I, capp. 13, 15), giova a chi governa nell'opera di persuasione dei cittadini e di sprone all'azione più utile alla stabilità dello Stato. Poco importa che l'adesione del principe o del condottiero a motivi e simboli religiosi sia simulata e meramente strumentale, il primato dell'utilità politica, che peraltro per il grande fiorentino fa tutt'uno con il bene comune, esclude che si tratti di abuso o di un che di empio.

Il fatto che questo tipo di strumentalizzazioni politiche della religione si ripropongano a noi ancor oggi in una maniera che risulta invadente per il cittadino e inquietante per il credente è stato certamente un primo movente per scegliere il tema della parte monografica di questo fascicolo. Si pensi alle attuali dispute italiane sull'esposizione del massimo simbolo cristiano nelle aule delle scuole pubbliche (e dei tribunali). Il Crocefisso è un simbolo culturale o un simbolo della fede? Ben pochi credenti si riterrebbero soddisfatti della prima risposta, tanto più se in odore di strumentalizzazione elettorale. Peraltro, se in Italia fosse mai possibile avviare un dibattito paziente e maturo intorno a come intendere e salvaguardare l'esperienza civile ed esistenziale dei simboli culturali, emergerebbe finalmente quanto apologeti di lungo corso e opportunisti dell'ultima ora fanno fatica persino a intravedere da lontano. Nella repubblica ideale sarebbero proprio i cristiani, i cattolici, a chiederne la rimozione affinché il simbolo per loro più intenso e significativo non sia ridotto a pretesto identitario o ad «arredo obbligatorio», nel primo caso abbassato a rassicurazione geografica, nel secondo a comparsa, sullo sfondo, tra lavagne e cartine geografiche. Tutto meno che simbolo inaudito e spiazzante dell'unione salvifica di Dio e dell'uomo nella sofferenza tragica. In questa stessa repubblica sarebbero gli studenti atei, ebrei e mussulmani a chiedere che il crocefisso sia esposto, avendo così modo di fare l'esperienza più formativa, quella di scoprirsi stranieri persino nel proprio paese. La scuola e l'università smettono infatti di istruire soltanto e cominciano a educare nel momento preciso in cui riescono a propiziare l'esposizione degli studenti all'inconsueto e all'estraneo, anziché dunque riproporre doppioni di quanto già è familiare. Peraltro, mi pare che, quando non si resti ostaggio di mere abitudini sentimentali, la parete bianca di un'aula scolastica non risulti un muro svuotato, bensì proprio uno spazio luminoso e tutto da scrivere, pronto a ospitare i mille disegni, canti e discorsi che vengono dall'incontro tra alunni, docenti e testi di provenienze e prospettive diverse.

Come confermano anche queste rapide osservazioni, la questione della religione civile coinvolge aspetti molteplici che vanno al di là del pur importante problema della strumentalizzazione politica della religione. Soffermarsi filosoficamente e teologicamente sul fenomeno della religione civile conduce di necessità a fare i conti con alcuni snodi portanti della modernità, in primo luogo con il tema della laicità e della secolarizzazione. Ad avviso di chi scrive l'indagine si fa fruttuosa specie quando induce ad abbandonare ogni identificazione automatica tra laicità e secolarizzazione. Gli Stati infatti che approfittano dei vantaggi politico-civili della religione non sono laici, ma sono del tutto secolarizzati. È questo, per esempio, il caso paradigmatico di Hobbes, decisivo per il filosofo della politica e del diritto, ma soprattutto, direi, teologicamente inquietante per il cittadino credente. Di certo, comunque, quando Rousseau, nel capitolo ottavo del Libro IV de Il Contratto sociale, scrive che «interessa molto allo Stato che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri», si è dinnanzi ad affermazione che pesca in una notevole quantità e qualità di rinvii. Sottolineando come i «sentimenti di socievolezza, senza i quali non è possibile essere un buon cittadino né un suddito fedele» (ibidem), trovino nell'alveo della religione una imprescindibile linfa vitale, filosofi come Rousseau stanno insieme ammettendo come il cittadino, persino nella sua versione bourgeois, sia e resti un animale simbolico, il cui immaginario è intriso di quanto questi "respira" e pratica nel mondo-della-vita, ben prima e più a fondo di ciò che viene poi voluto, deciso e negoziato a livello politico istituzionale. Sebbene la prima modernità non approdi alla distinzione tra società civile e Stato è come se i fautori della religione civile venissero così riconoscendo qualcosa che anche per noi è divenuto tangibile: la difficoltà tutta moderna degli apparati statuali, specie oggi che sono quanto mai ostaggio di condizionamenti economici, a non farsi recepire come mere macchine burocratiche. D'altronde, come dirà Durkheim ne Le Forme elementari della vita religiosa, «la religione è cosa eminentemente sociale», è cioè prassi condivisa collettivamente e dunque – con i suoi simboli, dogmi e culti – ha un'incidenza "politica" sugli esseri umani prima che essi entrino consapevolmente nella dimensione della cittadinanza. Il punto delicato è che l'aggancio vitale dello Stato alla religiosità che permea il mondo-della-vita tende a rivelarsi fatale per entrambi: politicamente in quanto rischia di proporre forme secolarizzate di teocrazia che soffocano, anziché rendere possibile, il pluralismo e l'autonomia dei cittadini, teologicamente in quanto la religione si ritrova a morire proprio di questa sua sopravvivenza forzata, politicamente assicurata.

Siamo al centro di alcuni gangli portanti di quella modernità che è giunta sino a noi. Infatti l'arduo compito di armonizzare le diverse dimensioni della sfera pubblico-sociale si ripropone in maniera decisiva a livello individuale. Nella prefazione al De Cive Hobbes codifica in termini moderni la complicata multidimensionalità di ciascun essere umano: «In questo libro sono tracciati i doveri (duties) degli uomini prima in quanto uomini (as men), quindi in quanto cittadini (as subjects), infine in quanto cristiani (as Christians)». Si è deciso di porre a titolo delle pagine che seguono questa distinzione di ruoli, «uomini, cittadini, credenti», perché la questione della Religione civile è strettamente legata con il fatto che ognuno è contemporaneamente un individuo con un suo microcosmo privato, un cittadino e anche un credente (ovvero un non credente o diversamente tale). Preso dal punto di vista soggettivo il fenomeno della religione civile rinvia al fatto che le nostre esistenze vedono intersecarsi e convivere, troppo spesso confliggere o andare incontro a separazioni dolorose, il rapporto che abbiamo con noi stessi e con la nostra sfera privata, il rapporto che abbiamo come cittadini con la sfera pubblica e politica, il rapporto che abbiamo nei confronti del sacro o di ciò che attiene al religioso. Tenere assieme queste tre dimensioni relazionali in modo che ne scaturisca un amalgama vivibile e vitale, in cui la comunicazione prevalga sul compartimento stagno, unificarle senza farle collassare sotto il monopolio dispotico di una sola di esse, non è soltanto compito rimesso a continui inciampi, ma è anche risorsa. È vitale e decisivo per il nostro stare al mondo poter non essere solo individui privati, né ridursi a cittadini (sudditi!), né farsi monopolizzare dall'esperienza della fede (o della non fede). Esistiamo con gli altri nello spazio-tempo del mondo e siamo perciò necessariamente chiamati a sintetizzare l'eterogeneo e a condividere il non-condiviso. È dunque nella saldatura duttile e saggia di queste dimensioni che si gioca la partita più importante, le cui conseguenze si ripercuotono sulla vita collettiva come sulla sfera più personale. In altri termini, la modernità non ha solo invaso le nostre esistenze separandole da se stesse, non le ha semplicemente vivisezionate in compartimenti reciprocamente alieni, ma le ha anche investite della possibilità preziosa che nessuno dei nostri ruoli, anche quello più importante, fagociti il nostro essere. Trattasi di una possibilità intensamente liberatoria sotto il profilo soggettivo e tremendamente carica di conseguenze etico-politiche in rapporto agli altri. In entrambi i casi essa vive della capacità di poter-essere-un-tutto senza che l'interezza venga ridotta a sostanza omogenea. È possibilità che dipende dalle risorse ermeneutico-narrative di ognuno, così come dalle condizioni oggettive che la società, lo Stato e anche i rappresentanti delle Chiese sanno approntare proprio in rapporto alle altre parti.

Di esempi storici di religione civile se ne danno molteplici, anche assai diversi tra loro. Tra questi spicca senz'altro quello degli Stati Uniti d'America, le cui fibre politiche, istituzionali e sociali, sono da sempre profondamente intrise di riferimenti simbolico-narrativi biblici. Essendo il paese che con la sua potenza, non solo economica, ha maggiormente condizionato gli ultimi cento anni del pianeta, non si tratta di un fenomeno secondario, tanto meno così distante. È dai tempi del sermone intitolato A Modell of Christian Charity, stilato da John Winthrop nel 1630 sulla nave Arabella, la quale portava i coloni puritani inglesi verso il Massachusetts, che la nazione americana racconta a se stessa di incarnare il nuovo popolo eletto chiamato a illuminare con il proprio esempio virtuoso tutte le altre genti. Winthrop scriveva: «scopriremo che il Dio di Israele è fra noi, quando dieci di noi riusciranno a resistere a mille dei nostri nemici; quando Egli ci renderà l'onore e la gloria che gli uomini diranno delle piantagioni a venire: "che il Signore le renda simili a quelle del New England". Dobbiamo infatti considerare che saremo come una città sopra la collina (a citty upon a hill). Gli occhi di tutti i popoli sono su di noi. Cosicché, se nell'opera che abbiamo intrapreso mancheremo al patto con il nostro Dio, daremo a Lui motivo di toglierci il Suo sostegno e saremo sulle bocche del mondo intero, specialmente dei nemici, che potranno così parlare male delle vie di Dio». La città americana è resa forte, piena di profitti e destinata a svolgere un ruolo di esempio morale e civilizzatore per tutte le genti del mondo perché su quella collina – come in Mt. 5, 14-6 – l'ha posta Dio stesso e perché è abitata da un popolo che resta fedele al patto con Dio e da individui il cui cuore è rigenerato dalla fede. La politica americana, le sue istituzioni e la compagine sociale si reggono su una metafisica teologica impostata secondo la seguente gerarchia di precedenze: Dio–io–responsabilità morale–potenza politica. Come ha ben sottolineato Emilio Gentile nel suo La democrazia di Dio del 2006, è dai tempi di George Washington, sino a tutt'oggi, che Dio dimora alla Casa Bianca, e rispetto a questa costante di fondo l'alternarsi di presidenti repubblicani e democratici non comporta differenze di rilievo. Ora, inquieta e sorprende che Dio possa essere spacciato per repubblicano, fianco a fianco di Nixon, Reagan o il secondo Bush, ma non meno sconcertante è il deficit di laicità dei leader democratici. Persino Clinton, detestato e avversato in tutte le maniere dalla destra religiosa, tenne molti discorsi della sua propaganda elettorale da pulpiti delle chiese protestanti, enfatizzando la propria devozione a Dio quale garanzia rassicurante per il popolo americano (ibidem). Così Al Gore, prima come vice-presidente di Clinton e poi come avversario elettorale di George Bush Jr., si è sempre proposto pubblicamente come «cristiano rinato (born again)». Insomma, che l'America «occupi un posto speciale nel cuore di Dio» e soprattutto che la democrazia statunitense sia un frutto eminente di quella moralità che ha le sue radici nella fede cristiana sono due presupposti fondanti del modo in cui sin dalle origini i nostri cugini d'oltre Atlantico si raccontano e si aprono al mondo. Essi difendono sì la separazione tra Stato e Chiesa, ma solo in quanto escludono che possano darsi degli U.S.A. evangelici, battisti, cattolici o ebrei; la religione civile americana scaturisce invece da un rapporto diretto – non mediato da istituzioni ecclesiastiche o da determinate configurazioni confessionali – tra il Dio della Bibbia, il suo popolo e gli individui che lo guidano. Come tutto questo non comporti la più inaccettabile delle idolatrie, specie qualora vale a ergere a paradigma indiscutibile per tutti un determinato modello di civiltà, ma soprattutto quando serve a giustificare invasioni militari, guerre, liberismi selvaggi e iniqui sfruttamenti, come tutto questo – dicevo – non sia l'idolo a cui gli americani non costringano i propri cittadini diversamente credenti o atei, oppure gli altri popoli, persino loro alleati, a pagare pegni gravosi, è questione che anche i contributi che seguono lasceranno necessariamente aperta.

L'andamento storiografico di alcune delle pagine che seguono non deve ingannare. Anche quando vengono doverosamente richiamate le mosse a riguardo di alcuni grandi classici della modernità, l'intento di fondo, costante e palese, è di aprire domande e tentare risposte che sappiano saldarsi a quanto urge nel complesso intreccio di situazioni con il quale ci investe la realtà a noi contemporanea.

Il primo saggio, di Ugo Perone, si sofferma sulla questione della secolarizzazione, mirando a togliere plausibilità a tre consuetudini di pensiero: l'equazione modernità-secolarizzazione, l'incompatibilità tra laicità e religione, e tra cristianesimo e illuminismo. Rispetto alle ipoteche religiose il moderno irrompe sì come «un novum radicale», ma poiché la società moderna resta bisognosa di presupposti ispiratori che regolino i rapporti nello spazio pubblico, senza essere a loro volta oggetto di contrattazione, resta aperto l'interscambio con il cristianesimo, che, sia pure a partire da altra fonte, fa riferimento a sua volta a presupposti affini e fondanti. Il saggio di Giuseppe Goisis punta i riflettori sulla religione civile come «un tentativo radicale di rispondere alle contraddizioni e difficoltà dello Stato moderno» e, dopo averne richiamato possibili rischi ed effettive cadute, propone di distinguere tra religione civile e religione politica, aprendo un possibile credito nei confronti della prima se e solo se essa resti compatibile con la necessaria pluralità delle idee, immune da idolatrie nazionalistiche e/o culturali. Alla luce di queste indicazioni andrà intesa anche l'esortazione finale, quella che si torni, specie in Italia, «a narrare e a ritessere una comune storia». Il saggio di Leonardo Samonà propone di sganciare la nozione di religione civile dalle accezioni, insostenibili, che ne fanno il cemento della coesione sociale, per mostrare come proprio il cristianesimo, che Rousseau aveva invece considerato religione degli schiavi del cielo, avversa a ogni senso autenticamente civile di cittadinanza, proprio il cristianesimo nel suo più intimo nocciolo sia religione della libertà, che, sciogliendo ogni senso chiuso di «immediata appartenenza sociale», può perciò svolgere un ruolo prezioso entro lo stato liberal-democratico, il quale vive proprio degli spazi di libertà riconosciuti ai suoi cittadini, in primo luogo religiosa.

Nella sezione 'Questioni' compare anche il contributo di Matteo Giannasi perché, enfatizzando il peculiare afflato etico-umanistico che attraversa la fenomenologia husserliana, riesce a richiamare un diverso esemplare di religiosità civile, tutta illuministica e filo-scientifica, che tanta parte ha avuto in quella stessa modernità che poi invece quasi ripiega quando assume come necessario appoggio la religione civile propriamente detta. Husserl, infatti, intende il farsi «scienza rigorosa» della filosofia fenomenologica come rispondente a una vocazione, a una missione, quella di rinnovare spiritualmente l'umanità. La sezione 'Figure' raccoglie contributi che catalizzano un confronto più ravvicinato con i testi dei grandi autori di riferimento, ma che non per questo risultano meno protesi verso l'elaborazione di indicazioni e considerazioni propositive. Il saggio del sottoscritto si sofferma sul caso 'Hobbes', il quale colpisce perché – fermo restando il proprio ferreo utilitarismo politico – attinge massicciamente alle fonti delle Sacre Scritture bibliche per rinforzare il Leviatano, Stato il cui potere illimitato vive dunque di una sacralizzazione secolarizzata, ma nient'affatto laica, che i sudditi/cittadini riconoscono grazie a dispositivi simbolici assai complessi e raffinati. Lucio Cortella sottolinea come sarebbe improprio ritrovare in Hegel una funzione civile della religione, eppure il filosofo tedesco descrive lo Stato attraverso predicati teologici, presentandolo come «volontà divina» e come «Dio reale». La teologia politica hegeliana infatti è basata sul ritenere che lo Stato incarni nell'effettualità politica più concreta quanto il Cristianesimo ha insegnato da par suo all'Occidente: Dio è spirito libero che si fa realtà nella storia dell'uomo. Lo Stato hegeliano, perciò, non è totalmente altro dai cittadini e dunque questi gli testimoniano liberamente fiducia. La questione della libertà cristiana, caratterizzata da un universalismo religioso slegato da ogni particolarismo etnico o localistico, ritorna anche nel saggio di Francesco Ghia, il quale si appoggia a chiavi weberiane per sostenere quanto questo paradigma abbia lasciato il segno nel percorso storico-politico occidentale verso la tolleranza e la libertà di coscienza. Sebastiano Galanti Grollo mette in luce il rifiuto di Levinas di ogni teologia politica premoderna, richiamandone nel contempo l'interpretazione dell'ebraismo come peculiare forma etica di umanesimo laico. Fulcro portante è l'originaria relazione di ogni individuo verso ogni altro che, in quanto relazione eticamente responsabile, avanza una decisiva istanza prepolitica di giustizia nei confronti dello Stato liberale. Il saggio di Davide Spanio appare leggermente decentrato rispetto al tema prescelto, ma si è ritenuto di lasciarlo entro la parte monografica di questo fascicolo perché, riprendendo sollecitazioni crociane e gentiliane, va a cimentarsi – in una chiave che certamente risente della lezione severiniana – con la questione della libertà, la quale attraversa in modi diversi tutti i contributi qui raccolti, intrecciata com'è infatti a quella della religione civile. L'obiettivo filosofico è di mettere in luce quanto di fideistico e dunque di religioso vi sia nell'affermare la realtà della libertà, in cui starebbero insieme essere e non essere. A chiudere la sezione 'Figure' è un breve saggio di Amos Badalin, utile a richiamare alcuni tratti caratteristici della religione civile americana, ma anche a dar voce a possibili pregi di questa quanto a sue eventuali, ma nient'affatto remote, pericolose chiusure.

Gian Luigi Paltrinieri