FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Un nemico ha fatto questo

Il titolo di questa raccolta cita la risposta del «padrone di casa » nella parabola del grano e della zizzania narrata al capitolo 13 del Vangelo di Matteo (vv.24-30), dove, più precisamente, la frase suona: «un uomo nemico ha fatto questo». È una frase che dà a pensare. Il primo Vangelo insegna infatti – il Discorso della montagna precede di soli otto capitoli – che a un uomo che ci è nemico non è lecito opporci al modo in cui, a questo mondo, ci si oppone al nemico e al modo in cui, dunque, il nemico stesso ci si oppone: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio […] Ma io vi dico amate i vostri nemici»[1]. Se tale è legge del regno – se la relazione d'inimicizia non può più pensarsi reciproca, se il nemico è da amare –, resta da comprendere in che direzione dovrà muoversi e operare chi, pure, è chiamato a opporsi al male e a vigilare perché il buon seme sia preservato e ne siano protetti i frutti.

Sebbene del tutto assente nel testo di Mt 13 e non giustificato, quindi, da un punto di vista strettamente esegetico, il rimando a Mt 5,38-48 è in vario modo operante, espressamente o sottotraccia, negli studi della raccolta. Non me ne vorranno quindi gli autori se anticipo a questo modo – nella forma di una ʻdifficoltàʼ che rimane da approfondire – una possibile chiave di lettura della loro comune fatica di reinterrogare alla luce della risposta fornita nel racconto evangelico la questione che da millenni assilla il pensiero filosofico e teologico: da dove il male?

All'interno della storia, una difficoltà per molti versi simile a quella prima prospettata sembra in effetti trovar riscontro ai vv. 29-30 quando, rispondendo a una nuova domanda dei servi, desiderosi di opporsi all'opera distruttiva del nemico, il «padrone di casa» fa loro divieto di ripulire il campo dalle piante velenose, perché nel ʻraccoglierleʼ c'è rischio di ʻsradicareʼ quelle del grano, e li invita piuttosto a consentire che le une e le altre «crescano insieme fino al raccolto». Ma se la consegna è di attendere (come si attende qualcuno ma anche, forse, come si attende a un compito) il tempo del raccolto in cui far posto ad altri, incaricati della mietitura, come distinguere intanto le piante del «padrone di casa» sui cui frutti è da vigilare?

Negli scritti che seguono, il senso della proposizione «un nemico ha fatto questo» è indagato in costante riferimento a questa temporanea condizione di impasse – temporanea, forse, solo in quanto costitutivamente temporale – in cui i servi vengono posti e della quale non si fa più parola nella spiegazione (diasàphesis) della parabola offerta poco dopo ai discepoli dallo stesso Gesù (vv. 36-43). Quando il racconto viene ripreso in vista della sua ʻdelucidazioneʼ, ogni riferimento al tempo dell'attesa e all'ardua consegna di Mt 13,28-30 sembra scomparire e questa esclusione ha l'effetto di isolare, come in un cono d'ombra, il contenuto simbolico del messaggio, affidandolo per intero all'«ascolto» di chi «ha orecchie».

Com'è noto, una simile circostanza ha contribuito a rendere più ardua l'intelligenza della pagina matteana e a movimentare la lunga vicenda esegetica della parabola. L'ambizione di entrare nel vivo del dibattito specialistico tuttora ampiamente aperto in materia e di prendere posizione al suo interno è però estranea al taglio teorico della raccolta e delle motivazioni che la ispirano. In essa è bensì costante il riferimento ad alcune delle questioni di ordine esegetico poste da Mt. 13, compresa quella del ruolo e del significato delle parabole, e soprattutto ad alcuni momenti significativi nella storia della ricezione della parabola nel corso dei secoli. Ma questi riferimenti servono a riconsegnare in modo criticamente avveduto il testo matteano alla specificità dell'intenzione di ricerca cui ho prima accennato. Quest'ultima richiede non tanto di partire dal racconto evangelico quanto di tornarvi incessantemente a criterio d'interpretazione di alcuni luoghi teorici che attraversano in modo cruciale la nostra tradizione di pensiero. È un'ampia traiettoria quella descritta in un simile movimento di ritorno, grazie al gioco di reciproco rinvio dei temi e delle figure di riferimento coinvolte; una traiettoria che porta fuori dal racconto evangelico, senza mai tuttavia abbandonarlo, per offrirlo idealmente all’«ascolto» – se così può dirsi – di voci autorevoli del Novecento e della tradizione di pensiero che sta a monte – da Platone a Schmitt, da Kant a Nietzsche, da Bonhoeffer a Girard, a Stein, da von Speyr a S.Weil.

Di questa traiettoria vorrei parzialmente dar conto – senza cedere alla tentazione di linearizzare in un’unica successione i diversi percorsi ma muovendomi a spola, liberamente, dall'uno altro –, in riferimento a una pista di ricerca comune che mi sembra profilarsi a partire dal punto di convergenza cui prima accennavo: l'attitudine a seguire, dentro e fuor di parabola, i fili del legame non visibile che, nel tratto lasciato in ombra dalla ʻspiegazioneʻ di Mt 13,36-43, si stabilisce fra le due risposte del «padrone di casa».

La prima risposta è una costatazione e ha l'effetto di assolvere il «principio del bene»[2] da ogni sospetto di connivenza con la radice del male: a operare, sappiamo dalla storia, è stato non solo un altro, un estraneo, ma un nemico. Non può pensarsi opposizione maggiore. A fronte della domanda «da dove la zizzania?» l'asserzione suona come un colpo di scure che taglia a monte la via di ogni possibile replica. L'enigma permane, ma insistere con un «da dove il nemico?» sarebbe stolto, dato che il nemico è evocato nel luogo della causa prima. Una ragione kantianamente avveduta delle proprie dialettiche sa che finirebbe in un «abisso» e per di più dalla parte sbagliata: dal lato del diavolo invece che da quello di Dio. Ma su di essa la costatazione contenuta nella seconda risposta – che, nell'impresa di raccogliere e togliere via le piante velenose, ne andrebbe delle radici delle piante buone – ha un effetto retrospettivo dirompente, che sembra rimettere tutto in gioco. La stessa mossa che ʻassolveʼ drasticamente il «padrone di casa» da ogni responsabilità, tagliando a monte la via della replica apre a valle uno scenario inesorabilmente conflittuale. In esso, tutta la carica aporetica dell'intreccio che non è più scioglibile e a causa del quale la zizzania e il grano traggono alimento dallo stesso terreno, viene fatta gravare sulla condizione di chi è comunque chiamato a vigilare sulla crescita e finisce per rifrangersi a carico delle radici stesse del bene.

Viene allora da chiedersi se e come entro una simile condizione permanga la traccia inequivoca dell’ordine del bene.[3]

Avverto l'impronta del Discorso della montagna nella proposta di Palumbo – cui devo in gran parte questi passaggi – che anziché cercare la via di un nuovo colpo di scure a fronte del dubbio così formulato, ne segue fino in fondo la pista mettendo a prova, in dialogo con Kant e con Nietzsche, una difficile «saggezza dell'incertezza»: a decidere non è la risoluzione dell'ambiguità ma il fatto che sia il principio stesso del bene a consentirla, a sostenerla, a patirla lasciandosi identificare in ultima istanza proprio per quel che di «inesorabile», in questa pazienza,lo porta a inventare di continuo piani di alleanza con l’altro, dovunque questi si sia cacciato. Così, nella parabola, si ostina a non escludere chi lo esclude e non permette neanche alle sementi del ‘nemico’ di stare fuori dal raggio della sua cura.[4]

Il riferimento a Mt 5,39-44 torna espressamente nel saggio di Naro, dove assume un ruolo essenziale per mostrare la via che può dar conto dell'ambiguità non nella direzione che ne cerca la soluzione ma in quella che la spinge anzi all'estremo. Nel fare emergere «una coerente consequenzialità» fra la formulazione della parabola e la «spiegazione» di Mt 13,36-43, Naro tematizza, in implicita ma tenace sintonia con Palumbo, una costitutiva «inevidenza del dirsi divino» e gioca sullo scarto fra la nozione di certezza e quella di evidenza per far risuonare, proprio dentro questo scarto, la forza constativa della proposizione di partenza, «un nemico ha fatto questo»:

Questa inimicizia è certa, come certo è l’esito ultimo della contrapposizione. Tuttavia inevidente rimane il senso di queste certezze, che dev’essere interpretato in coerenza a quanto nello stesso vangelo secondo Matteo si apprende sulla resa coraggiosa al malvagio e sull’irrinunciabile amore che si deve all’avversario[5].

L'enigma del nemico permane. Lo richiede il senso stesso della parabola che all'irriducibilità della sua figura lega la radicalità della differenza e dell'opposizione fra il grano e la zizzania. Lo scenario – lo sottolinea ostinatamente Bellia nel suo saggio – rimane quello del conflitto irrisolto e del rinvio al giudizio finale. A fronte di questa certezza, la via della ‘coerenza’ con Mt 5 non mira, insisto, verso il punto in cui il nodo dell'enigma si risolve ma in quello in cui maggiormente si stringe. Sappiamo dal tempo di Giobbe che la risposta ʻassolutoriaʼ del proprietario del campo non è fatta per rassicurare (dove si nascondeva il padrone di casa, lasciando che un altro operasse nel suo campo?); ma una difficoltà più sottile e insidiosa sembra ora istallarsi al cuore dell'interrogativo che da sempre assilla il pensiero filosofico e religioso, chiamato a misurarsi con l'enigma della sorprendente ʻpazienzaʼ o se vogliamo della sorprendente ʻdebolezzaʼ di Dio. Questa volta, per l'annodarsi di non so quale oscura complicità fra la terra e il cielo, l'ambiguità che fa resistenza alla luce e fa ombra fra l'una e l'altro non è addebitabile all'opera del nemico né alla terra e ai suoi frutti ma al cielo. L'ostacolo, la pietra d'inciampo, non proviene più dallo stato di abbandono di un mondo infestato di gramigna, in perenne attesa della mietitura, ma dalla regola stessa del regno che è da venire, e il comando evangelico «siate perfetti come il padre vostro che è nei cieli» sembra ora mettere a prova i servi sul metro di quella stessa ʻpazienzaʼ, di quella stessa enigmatica debolezza che essi faticano a perdonare nel loro signore.

Qui c'è davvero, qualcosa di intollerabile per l'ansia di rassicurazione che preme – come negarlo? – al fondo della domanda dei giusti sulla provenienza del male. È un passaggio delicato che, nelle pagine della raccolta, viene lungamente esplorato sia sul versante storico che su quello concettuale. Non sorprende che la ʻspiegazioneʼ, centrata per intero sull'annuncio del tempo ultimo in cui la zizzania verrà bruciata e «i giusti splenderanno come il sole nel regno del padre loro», possa suonare come una sommessa inversione di rotta, volta ad allentare la morsa, a testimonianza di un'effettiva e drammatica condizione di incertezza delle prime comunità cristiane:

si comprende come apparisse sconcertante e deludente il comportamento di Gesù, che si lasciava avvicinare da reietti e favoriva gli esecrati stranieri[6]

Di fatto,

Il rabbi galileo, «mite e umile di cuore» (11,29), secondo la profezia di Isaia (42,3) [...],accogliendo con misericordia i peccatori, smentiva l’attesa di un’immediata e finale giustizia risolutrice.[7]

Non sorprende nemmeno che l'ansia di rassicurazione si istalli così profondamente nella storia futura del cristianesimo da condizionare la stessa vicenda esegetica dampo (ossia, in Mt 13,38, il mondo) fa presto a ricompattarsi trasformandosi nella comunità dei fedeli, il diavolo a prendere il volto dell’eretico ed è inevitabile che lo zelo stesso dei servi nel discernere e smascherare in mezzo al grano la pianta del cattivo seme li induca ad anticipare, a dispetto della seconda risposta, il tempo della mietitura[8].

Anche a contrario, però, i conti tornano. L'insidia che mette a rischio «la traccia inequivoca dell'ordine del bene», l'intollerabile della seconda risposta, rimanda per intero al comando di non opporsi all'estraneo, all'antagonista, e di non dividersi da chi pone divisione. Ma allora la difficoltà si ripropone così severamente da non lasciare più respiro: come impedire che, in quest'ottica, proprio il ʻrabbi galileoʼ che invitava a non opporsi al malvagio e predicava l'amore per il nemico prenda il volto minaccioso dell'estraneo e del nemico?

Rubo questa conclusione «estrema» a Samonà, che la guadagna da lontano, in margine a una serrata discussione della struttura dell'opposizione amico/nemico in Schmitt – uno dei lasciti teorici più controversi ma anche più resistenti e più radicati del pensiero politico del Novecento – in cui prendendo le mosse da un fraintendimento di un noto passaggio della Repubblica, fa emergere l'assillo di espungere dall'insegnamento evangelico sull'amore quel che è di troppo: lo straordinario, l'inaudito.

Invece, è proprio da quell'eccesso, dal punto in cui il nodo si fa più stretto, che il tema va affrontato. La «spiegazione» che lega per intero il discernimento all'avvento del regno e della sua legge acquista un nuovo potere di rivelare il senso della relazione che lega la vigilanza e l'attesa, se si fa chiaro fino in fondo che l'amore è il luogo e la regola del discernimento e che è per intero in gioco nella torsione che lo volge verso il nemico. L'amore evangelico è, con Samonà, l'«amore indiviso» di Bonhoeffer che, volgendosi egualmente a entrambi, ha forza di tenere assieme l'amico e il nemico così che sempre, nel giudizio, il lato della conciliazione e dell'inclusione preceda e ospiti quello della divisione. È, con Agnello, l'«amore eretico» di una «cristiana dal di fuori» quale fu Simone Weil, che «accetta l’irriducibile alterità dell’altro», prendendo le distanze da ogni forma di identificazione «fusionale» con il proprio oggetto per collocarsi interamente sotto il segno della libertà. Se la sua legge è quella del regno a venire, la forma secondo cui il discernimento qui e ora si rende possibile sarà quella della gratuità e del «dono», come propone D'Addelfio, il cui studio evidenzia un sorprendente legame fra la pedagogia del discernimento di E. Stein e la spiritualità di A. von Speyr che, nella sua personalissima rilettura, ritrova nel racconto evangelico il grande tema neotestamentario del ʻdiscernimento degli spiritiʼ.

Se è però in questa direzione che il messaggio della seconda risposta invita a cercare il modo giusto di opporsi alla causa del male, allora l'intera prospettiva va capovolta. Invano inseguiremo la cifra del Regno a venire dal lato della separazione finale e della esclusione radicale dell'antagonista. La cosa sta all'opposto: non è forse dal limite di una esclusione così radicale, e per questo così enigmatica, che il nemico entra nel ‘campo’ e mette a prova la causa del bene? Proprio dove più le è estraneo, proprio nel punto in cui massimamente le si oppone, esercitando fino in fondo la propria funzione di antagonista, proprio là è, all'opposto, fino in fondo accolto. Tale è la legge del regno.

«A chi vuole contendere con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne due con lui» (Mt5, 40-41). L’amore passa per l’accentuazione della somiglianza, per un’inaudita convivenza con la parte avversa. Proprio da qui sorge il più acuto discernimento. L’amore ricrea infatti una relazione proprio là dove l’avversario istituisce la divisione. È questo il suo «ultimo» discernimento: un andare fino alle radici dell’avversione, là dove il nemico mostra la sua presa di distanza dall’annuncio della giustizia di Dio [9]

Torno da qui all'intenzione di fondo di cui dicevo all'inizio: a fronte della domanda che da sempre impegna il pensiero la ʻrispostaʼ evangelica accusa, nel luogo della causa prima del male, un estraneo, un nemico. Non ne cogliamo però l'attitudine a rispondere nel modo più radicale di una tale causa se non viene in chiaro che, nel racconto, l'accusa stessa sta sotto la legge del regno. La risposta che addita come causa il nemico non lo addita a oggetto dell'odio ma dell'amore(Mt 5, 48). Senza questo riferimento verrebbe meno l’oggettività dell'indicazione e non ci sarebbe qualcosa come il ʻnemicoʼ. Leggo nell'indicazione un che di ʻcategorialeʼ, in linea con il saggio di Samonà, che intende

mostrare come l’amore evangelico restituisca innanzitutto nel suo significato più radicale il concetto di nemico[10].

Credo che i diversi itinerari cui ho fatto cenno concorrano in vario modo a illustrare questa intenzione e a dar forza alla svolta sottilissima e decisiva, che essa promette proprio lungo il taglio più enigmatico della costatazione evangelica che dà titolo alla raccolta. L'enigma resta: la parabola tace sulla provenienza dell'accusato. Il nemico si dà e basta! Ma non tace sulla destinazione: si dà in quanto è dato da amare. Non è prima dato e poi, sotto la legge del regno, ci si chiede di amarlo. È all'inverso: la legge che gli oppone incondizionatamente l'amore lo riguarda e lo include dall'origine. La relazione che lo riferisce all'amore che gli va opposto ha carattere primitivo. È il concetto stesso di nemico che in questo riferimento è in gioco se è vero che, paradossalmente, solo nella piega di un simile riferimento e solo a partire dall'ardua consegna di Mt 13, 29-30 il nemico del racconto evangelico può pensarsi nel luogo della causa prima.

 

[1]Cf. M. Naro, Chi ha orecchi intenda. La zizzania frammista al grano e il senso inevidente del dirsi divino, infra. p. 464.

[2] Cf. G. Palumbo, L’incondizionato e l’ambiguo. A proposito di «lasciate che l’uno e l’altra crescano insieme», infra p.439.

[3]Ivi, p.440.

[4]Ivi, p.450.

[5]M. Naro, cit., p.469.

[6]G. Bellia,Il campo, il seme, il nemico: essere grano o zizzania?,infra p. 481.

[7]Ibidem.

[8]Un tratto di questo percorso è esemplarmente rivisitato nel saggio di Russino.

[9]L. Samonà, Chi è il nemico?, infra p. 500.

[10]Ivi, p.492.

 


Giuseppe Nicolaci