FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Quale rapporto c’è tra istituzioni e persone? Da un lato, sempre più spesso le istituzioni tendono a identificarsi con le persone dei loro leader. La chiesa, è il papa; il governo, è il primo ministro; i partiti, sono i loro segretari politici (sempre più spesso chiamati per ciò presidenti). Questa tendenza è un segno piuttosto sicuro della crisi delle istituzioni. Per rendere le istituzioni più vicine alle persone, esse vengono personificate. Ma la cura è parte del male. L’istituzione, che si riduce a persona, ha già perso la sua trascendenza. O meglio: vissuta com’è quale forma vuota, e anzi come un peso, l’istituzione deve assumere una forma più user-friendly (la forma personale), che però è appunto la forma friendly di un’istituzione inutile e in fondo oppressiva.

In questa deriva personalistica, si potrebbe cogliere tuttavia paradossalmente anche un segno di speranza. Il processo di personalizzazione ci mette a suo modo sull’avviso che le istituzioni, considerate nella loro natura, non si oppongono alle persone. Pur nel loro conflitto, che oggi prende sovente la strada della delegittimazione, istituzioni e persone sono solidali rispetto al movimento dell’anonimo (della vita anonima) almeno in questo, che sono forme entrambe. Che, come tali, hanno interesse a durare. La chiesa è un’istituzione, cioè una forma che non può accettare la prospettiva della propria sparizione, scomparsa e sostituzione. Il matrimonio è un’istituzione, cioè una forma che tende a durare e a difendersi dalla prospettiva della propria fine prematura. Analogamente, le persone – per quanto si alleino con la vita nella sua forza dinamica di cambiamento – fanno (o cercano di fare) dei cambiamenti della vita altrettante occasioni per identificarsi, cioè per affermarsi nella loro ipseità. Il rapporto delle forme con la vita può dunque essere più rigido o più flessibile, più ostile o più amichevole ma in nessun caso può condurre a una mera identificazione del nome e dell’anonimo, della Gestalt e del rizoma.

Che cos’è però oggi l’anonimo? La politica, con tutti i suoi difetti, non ha quello di non avere un volto. Le istituzioni sono facilmente identificabili, hanno un indirizzo preciso: palazzo Chigi o il Quirinale. Sappiamo dove trovarle, fosse anche solo per metterci a tirare monetine. Viceversa, Occupy Wall Street resta un’azione simbolica, perché il principio di deterritorializzazione non sembra avere una sede. La crisi finanziaria non ha messo sotto scacco le istituzioni, nemmeno le istituzioni finanziarie. Anzi, com’è evidente per esempio dalla popolarità di Mario Draghi, le banche centrali giocano nella crisi un ruolo fondamentale di riconduzione alla visibilità di un invisibile spaventoso. Le banche centrali sono sì duramente contestate, in quanto sarebbero emissarie delle potenze anonime del capitale. Ma, appunto, sono le potenze anonime della finanza, con cui non possiamo prendercela se non per supplenza, il vero obiettivo dell’ira, che – in questo caso – rischia di sbagliare bersaglio, di scaricarsi dove riesce, ma non dove dovrebbe.

La finanza, che vive in non-luoghi come le isole Cayman, è dunque la nuova figura dell’anonimo, se questa espressione paradossale ha un senso. Si tratta, in ogni caso, di un neutro, rispetto al quale la personalizzazione delle istituzioni cerca disperatamente di dare un segnale in contro-tendenza. Dimenticando, a propria volta, che un elemento di trascendenza-universalità positiva è necessario, se non altro per contrastare l’anonimato con armi che non siano troppe spuntate.

Due linee di azione, due alleanze sembrano dunque consolidarsi, alternative l’una rispetto all’altra: l’alleanza individui-anonimato, e l’alleanza persone-istituzioni. Nella prima, le persone non vogliono vincoli. Se proprio deve esistere, lo Stato dev’essere minimo. L’individuo agisce da solo, in vista esclusivamente dei propri interessi. Se mai, cerca protezione in individui più grandi e più potenti. Il vincolo istituzionale obsoleto viene così sostituito da vincoli para-istituzionali, contratti con «istituzioni» a proprio uso e consumo (che sovente si rivelano non meno oppressive di quelle da cui si pretende di essere liberati). Queste «istituzioni» sono spesso gruppi privati che, annullando la trascendenza dell’istituzione, fanno di tutto per appropriarsene. La partitocrazia domina la politica, il baronato l’università, movimenti ecclesiali aggressivi e omogenei danno la scalata alla chiesa, grandi lobbies condizionano la selezione della classe politica. Fa parte di questo quadro l’innalzamento al rango di istituzioni di agenzie di rating a capitale privato, come anche di aziende e multinazionali. In quest’ambito andranno inserite anche forme degenerative di alleanza tra istituzioni e anonimato, come la cosiddetta «trattativa Stato-mafia». L’alleanza tra individui e anonimato produce dunque «istituzioni», cioè forme super-individuali, che non sono per ciò universali: il potere (economico, finanziario, mediatico, politico) appare qui come l’unico obiettivo, come genitivo delle parole «presa» o «conquista».

Nella seconda alleanza, quella tra persone e istituzioni, il potere ha viceversa una sussistenza indipendente, esiste al nominativo. In luogo di una scalata, abbiamo un servizio. Si determina così uno scontro tra istituzioni e «istituzioni», tra forme legittime e potenze dell’anonimato. In entrambi i casi si cerca di costruire un argine contro i flutti violenti di quello che Lévinas chiamerebbe forse l’il y a. Nel caso delle para-istituzioni, questo argine è posto però dall’ stesso. I gruppi sono alberi, il cui tronco e le cui radici affondano nell’anonimato – nella sfera economica – mentre solo la chioma svetta nel mondo luminoso delle forme. Vi sarebbero dunque due argini: il gruppo e l’istituzione. Il gruppo è l’istituzione sociale, l’istituzione è il gruppo politico. I gruppi sono figure dell’anonimo. In essi, è l’anonimo stesso a prendere forma, a darsi figura. Si tratta di compensazioni interne dell’anonimato, per così dire: di organizzazioni «economiche». L’istituzione invece non dà figura all’anonimo, ma traccia un sentiero attraverso. Non è una sua immagine, è già un rimedio: una barca per attraversare il mare. L’istituzione non nasce per accumulo e ripetizione delle istanze della nuda vita, come una barca non potrebbe essere una mera condensazione di onde, perché è altro dal mare.

Il terrorismo, che dell’il y a è sempre stata un’ipostasi, nasce proprio dalla denegazione di questo ruolo di argine, di katéchon dell’istituzione, dalla trasformazione violenta dell’argine in una centrale dell’anonimato. Le rivendicazioni «identitarie» degli individui sono – paradossalmente – una strategia dell’anonimato. Come oggetto di rivendicazione aggressiva, l’«identità» è solidale con le Potenze, dunque con le para-istituzioni, quindi con lo stingere della sfera economica su quella politica, stingere che ebbe forse nei nazionalismi ottocenteschi (sublime madre nostra…) e nei successivi fascismi un prodromo paradossale. Opposte alle rivendicazioni identitarie sono invece le rivendicazioni delle persone.

Né la distinzione tra istituzioni e gruppi equivale in alcun modo a quella tra Stato e corpi intermedi. I gruppi aspirano a controllare le istituzioni, se non addirittura a sostituire le istituzioni, svuotandole dall’interno e corrodendole come un cancro, mentre corpi intermedi come la famiglia, il villaggio o le associazioni non aspirano a farlo, se mai – come nel caso delle associazioni di categoria – a condizionare la decisione del legislatore o a ottenere la mediazione dell’esecutivo. Decisivo è se tale condizionamento trascolora nella forma del controllo diretto, fin dal momento delle elezioni, o se si mantiene nell’alveo corretto del riconoscimento del carattere di alterità dell’istituzione rispetto al gruppo. Tra le associazioni, alcune – come i partiti – svolgono poi una funzione istituzionale legittima, perché costituzionalmente normata, che diventa abusiva quando, secondo una dinamica inversa e complementare a quella finora descritta (di cui costituisce semplicemente l’altro lato), lo Stato prende d’assalto la società e il politico stinge sull’economia, colonizzandola e soffocandola.

Abbiamo deciso di dedicare un numero al «senso delle istituzioni» – nella doppia accezione, oggettiva e soggettiva, di tale locuzione: hanno ancora senso, le istituzioni? esiste ancora un senso diffuso di appartenenza alle istituzioni? –, consapevoli del malessere profondo che le attraversa, sia in ambito civile sia in ambito ecclesiale. La crisi delle istituzioni è davvero epocale, perché legata ai fenomeni di lunga percorrenza della secolarizzazione e della globalizzazione. I vari fenomeni di malcostume nostrani non ne sono tanto la causa, quanto l’epifenomeno. La globalizzazione – come argomentato con grande lucidità nel saggio di apertura del fascicolo (di Pagano-Lingua) – è infatti caratterizzata dall’affermazione definitiva della sfera economica, dalla riduzione conseguente del ruolo della politica e della cultura, fino a una vera e propria dissoluzione dello spazio pubblico. In questo quadro, sono sempre più diffusi fenomeni di sottrazione individualistica alla responsabilità nei confronti delle istituzioni, culminanti in comportamenti di sfruttamento delle istituzioni da parte degli stessi loro rappresentanti, fino al disconoscimento del valore stesso del «patto costituente».

Le «Questioni» affrontano il tema sotto il profilo filosofico e giuridico. Dal punto di vista filosofico, Maurizio Pagano e Graziano Lingua interpretano la globalizzazione come il compimento della linea riduzionistica caratteristica della secolarizzazione; il ricupero – problematico – del senso delle istituzioni può e deve passare attraverso una complessificazione del nesso tra sistema e mondo della vita, che non si limiti a rigettare l’istituzione dalla parte del vincolo, rivendicando invece per la vita il carattere libero dell’espressione: è, in effetti, proprio nelle istituzioni che si genera una spinta creativa alla trasformazione, mentre, d’altro canto, la vita non è mai senza istituzione, ma scorre da sempre nell’alveo supplementaristico dell’istituzione.

Contro il rischio del riduzionismo, Roberto Cortese (filosofo) e Andrea Lanciani (avvocato e giurista), si appellano alla nozione aristotelica di amicizia sociale, e al suo ruolo fondante per la vita della comunità. Nell’interpretazione di Jouvenel, l’amicizia sociale è un aiuto indispensabile per l’opera di filtraggio degli scambi sociali tesa a eliminare quanto più è possibile le azioni dannose, che è l’essenza dell’arte politica.

L’articolo di Paolo Heritier, filosofo del diritto, pone radicalmente in questione la riduzione, implicata nella teoria del diritto moderna, della dimensione istituzionale alla sfera politica e giuridica. Muovendo dalla tematizzazione di natura economica del concetto di istituzione, tipica del mondo globalizzato, le cui istituzioni fattuali vengono a essere le grandi corporations e i mass-media, Heritier ricupera un possibile, paradossale legame con il sapere teologico: il brand, il marchio d’impresa, serve – come ha teorizzato Pierre Legendre – a un processo di legittimazione iconica e simbolica del potere istituzionale, il cui discorso è comunicato al popolo in inedite forme liturgiche, nella forma di testo.

Il rapporto tra Costituzione (in particolare, la Costituzione italiana del 1947) e istituzione è invece al centro delle analisi dei costituzionalisti Ilenia Massa Pinto e Francesco Pallante. La questione è, qui, quella della genesi della Costituzione, e – in solido – quella della sua giustificazione. La validità e la tendenziale effettività della Costituzione del ’47 si identifica – sostiene Massa Pinto – con i principî etico-politici «portati» dalle forze sociali che ne furono autrici, e che intesero realizzare un ordine sociale diverso da quello andato distrutto. Con riferimento alla Staatslehre di Hermann Heller, Massa Pinto rivaluta il concetto di ambiance: la singola norma giuridica può essere compresa solo a partire dalla totalità della costituzione politica complessiva, sicché – come viene argomentato in particolare in riferimento alla questione della tutela dei diritti – nella vita della Costituzione l’interpretazione dei suoi enunciati si rivela come il problema fondamentale del diritto costituzionale.

Francesco Pallante si propone quindi di trattare la nascita della Costituzione italiana del 1947 come un caso storicamente concreto di «istituzione di un’istituzione». L’analisi delle diverse fasi del processo storico che condusse alla genesi della Costituzione e, poi, al suo consolidamento, evidenzia, in una prospettiva neoistituzionalista, come il riconoscimento della Costituzione vada slegato da presupposti individualistici e volontaristici. Pallante ricostruisce in particolare i destini della regola dell’unanimità che le forze del CLN si dettero: mentre, nel 1947, il binario della politica quotidiana andava nella direzione del conflitto, l’Assemblea costituente proseguiva lungo un binario collaborativo.

Le «Figure» affrontano il tema del rapporto tra istituzione e chiesa nell’ambito del cattolicesimo (Repole), del protestantesimo (Rostagno) e dell’ortodossia (Bernardi). Roberto Repole ricostruisce la svolta segnata dal Vaticano II rispetto a un lungo processo – culminato nel Vaticano I – caratterizzato da un’enfasi preponderante sulla dimensione istituzionale della chiesa, peraltro ridotta alla sola funzione gerarchica. Senza mortificare la dimensione istituzionale, la Lumen Gentium rende possibile fare di nuovo spazio ai carismi della chiesa. Rispetto al passato, il pericolo che corriamo oggi è però piuttosto quello di uno sganciamento inverso del carisma dall’istituzione, dimenticando che le istituzioni (comprensive non solo del ministero, ma della Scrittura, del credo, della tradizione, del dogma eccetera) sono appunto ciò di cui lo Spirito di serve per rendere chiesa una determinata porzione di umanità, e che non esiste carisma che non abbia un debito verso la dimensione istituzionale.

L’eredità della tradizione protestante (in cui bisognerà fare significative differenze tra il ramo luterano e quello calvinista) – come ricorda Sergio Rostagno – si traduce nella crisi di qualsiasi «ponte» tra uomo e Dio: le istituzioni non possono essere questo ponte. Questo non significa certo che le istituzioni siano delegittimate, perché la tesi del protestante è che tra Dio e mondo ci sia incommensurabilità e compatibilità simultaneamente. La tradizione protestante s’implementerà dunque in istituzioni rigorose e oneste, intendendo complessivamente le istituzioni come «strutture che cercano di dare risposte durevoli a irrisolvibili situazioni contraddittorie».

Piergiuseppe Bernardi ci trasporta, in conclusione, nel mondo dell’ortodossia, in cui anche – potremmo dire – non c’è un ponte tra il sacerdozio e l’impero, in quanto essi tendono a sovrapporsi, secondo quel concetto di pleroma-sinfonia, che connota l’autocomprensione dell’Oriente in termini tanto unitari da apparire addirittura monolitici. Non esiste alcuna dicotomia tra istituzione e carisma. L’interpretazione delle istituzioni offerta dall’ortodossia discende del resto dalla più generale prospettiva neo-calcedonese, o dalla cristologia asimmetrica, che – rispetto alla tradizione cattolica – accentua tanto la dimensione della natura divina, da destare l’impressione di una marginalizzazione in Cristo della stessa natura umana. Il rapporto Stato-chiesa in Oriente non è dunque tra due istituzioni: nel che taluni potranno vedere un pericolo mortale, un semplice esperimento fallito, mentre altri vedranno piuttosto una pericoresi meravigliosa.



Enrico Guglielminetti