FILOSOFIA E TEOLOGIA
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«Alle spalle di un titolo, che designa un tema, sta un atto, talora quasi inconsapevole, di rispecchiamento. Ci si riconosce così in una formula avvertita come la più sinteticamente adatta a fissare i contenuti cui ci si vuole applicare e che stanno particolarmente a cuore. Nello spirito di questa premessa vorrei suggerire preliminarmente ai lettori di passare in rassegna titoli di opere famose assimilabili a quello scelto per questo numero della rivista.

A tutti verrà certamente in mente anzitutto il De vera religione di Agostino, cui del resto assai opportunamente in questo fascicolo è dedicato un ampio e istruttivo saggio di Paul von Geest. Leggendolo, non sarà difficile riconoscere che Agostino riprende e modifica l’eredità classica platonico-neoplatonica di pensare la verità e la rivendica per il cristianesimo, per una religione – che significa qui anche un modo di vivere – in cui la verità trova perfetto compimento e realizzazione nella persona di Cristo. In questo senso la vera religione è anche la vera filosofia, poiché a questa dà un compimento che è anche una trasformazione. Oltre mille anni più tardi Locke, nello spirito di un incipiente illuminismo, sceglierà la più prudente formula della Ragionevolezza del cristianesimo e Kant non se ne discosterà del tutto proponendo una Religione nei limiti della sola ragione. Feuerbach, inaugurando una serie di sicuro successo, proporrà in successione L’essenza del cristianesimo e L’essenza della religione, convinto com’era che nel nucleo intimo della religione fosse contenuta una verità che, antropologicamente intesa, potesse aver valore per ogni uomo. Naturalmente storici e teologi credenti, come Harnack o Guardini, non si lasciarono sfuggire l’occasione per rivendicare, ciascuno a proprio modo, un’essenzialità del cristianesimo che non si lascia ridurre antropologicamente. Ciò che è caratteristico di quest’orientamento, interessato al riconoscimento di un nucleo essenziale, è la tendenza a operare una ricostruzione del fenomeno religioso sulla base dell’individuazione del suo specifico, e al tempo stesso irrinunciabile, contenuto ultimo (e io stesso mi ci sono recentemente esercitato con un lavoro su L’essenza della religione). Al di là dell’esito – credente o non credente – vi è il tentativo di pervenire a una definizione del proprium della religione attraverso un procedimento di consapevole essenzializzazione.

Ora, come situare questo fascicolo, con la sua esplicita rivendicazione della verità della religione, rispetto alla vicenda che abbiamo rievocato per sommi capi (e che viene per altro richiamata anche dalle prime pagine del saggio di Capelle)?

Siamo certo lontani dalle preoccupazioni di Agostino e anche dalla sua netta affermazione di un’identificazione di verità e religione (o più esattamente dal carattere inclusivo della verità della religione). Ancor più lontani da un orizzonte illuministico, in qualsiasi delle sue possibili varianti, sia che voglia assicurare una riconducibilità razionale (o ragionevole) della religione sia che la voglia francamente negare, riducendo il religioso a una forma di superstizione. Siamo però forse anche oltre la ricerca di un’essenza del religioso, che appare formula non più adeguata per affrontare le sfide del presente (una formula, si potrebbe dire, o troppo o troppo poco sicura di sé). Quasi in un gioco di specchi con Agostino la questione che sembra porsi oggi è quella che investe sia la verità (di cui si dubita) sia la religione (cui non si aderisce). Parlare di verità della religione è rivendicazione di una verità non come oggetto o proprietà della religione, ma come apertura che la religione offre per uscire da un blocco riduttivo cui la questione della verità è stata costretta. Se la verità ha solo la forma della corrispondenza o della coerenza, essa diviene una categoria concettuale utilizzabile solo in un limitato e circoscritto numero di casi. Ma molto della vita e della società vi sfugge.

Una soluzione, che sembra affacciarsi in tempi come questi in cui la verità appare ardua e la religione messa in discussione, è quella di congiungere due debolezze per farne una forza. Si tornerebbe allora a parlare di verità della religione, come ricorso ultimo a un qualche punto fermo che dia sostegno nel tempo del pericolo. Ma non è questa, in nessun modo, la soluzione del quaderno. Assai più tradizionalmente, ma con un’innovativa e poco frequentata ambizione di futuro, la verità della religione non si ripiega verso una debole religione e una discussa verità, ma propone, in termini prospettici, e per così dire in avanti, come già in qualche modo si è accennato, una verità che viene dalla religione. Non però come un contenuto interno della religione, un suo qualche dogma o principio, ma come l’apertura di un modo di guardare alla verità, che nella religione si dischiude, e che per tutti può valere. Vediamo allora più in dettaglio come si articola questa pretesa.

Nella forma più ambiziosa ed esplicita essa viene formulata nel saggio di Enrico Guglielminetti ove l’autore, per un verso, mette a frutto la propria teoria filosofica dell’aggiunta, già enunciata in studi precedenti come in Troppo, e, per altro, riconosciutane la matrice religiosa, ne offre un’esplicita applicazione sul terreno della comprensione del religioso. «La mia tesi – scrive Guglielminetti – è che la verità religiosa (ma vorrei dire la verità tout court, filosoficamente intesa) implichi costitutivamente un riporto, o un’aggiunta. In altri termini: è una verità nella carità (la carità è un’aggiunta intrinseca della verità, non un supplemento estrinseco)». La citazione denuncia quell’andata e ritorno tra concezione generale della verità come aggiunta e verità religiosa, cui si è accennato. Per un verso in essa è contenuto un principio che sinteticamente si potrebbe riassumere così: la verità è un riporto, un fare spazio là dove lo spazio sembra già riempito, una concezione dell’essere per cui l’essere è più di se stesso. Per l’altro, come si riconosce nel corso del dibattito con cui lo studio si conclude, questa concezione è suggerita proprio dal terreno dell’esperienza religiosa: «L’aggiunta è una categoria che nasce dall’ermeneutica dell’esperienza religiosa». Non stupiscono allora gli espliciti riferimenti a un linguaggio di tipo religioso, come quando, per illustrare il senso dell’aggiunta, si fa riferimento a termini come carità, o inciampo, o gratuità, ecc. Ancor più caratteristico è il riferimento alla concezione cristiana della trinità e alla figura del Verbo.

Guglielminetti insomma rivendica esplicitamente alla sfera del religioso una concezione forte della verità (appunto quella verità della religione intorno a cui il fascicolo si interroga), capace però di includere e di fare spazio anche e precisamente a ciò che nega quella verità. Gli esiti dialoganti, se non dialogici, cui si perviene sul piano del pluralismo delle religioni e delle verità, sono esplicitamente richiamati proprio nel momento in cui si sostiene che il riconoscimento dell’alterità è meglio assicurato da una verità forte che non da una concezione debolistica. «Le religioni (non solo il cristianesimo, sperabilmente) non hanno dunque – questa la conclusione –bisogno di abbassare le proprie pretese di verità, per includere il diverso. Hanno, invece, bisogno di alzarle». In chiave strettamente teologica consegue da ciò non una relativizzazione, e tanto meno un abbandono, dei dogmi, quanto una loro radicalizzazione teorica o, come anche si dice, una trasvalutazione.

Il rischio di questa formulazione, osserva il teologo Roberto Repole, con esplicito riferimento al testo di Guglielminetti, è quello di una visione della verità pensata a prescindere dalla storia, diversamente da quanto appare essere centrale per il cristianesimo. L’aggiunta di Guglielminetti si sporge fino a includere anche il suo contrario, per Repole invece l’aggiunta ha nella storia la propria misura. La vera novità del cristianesimo (la sua verità, dunque) è che Dio si autocomunica con una rivelazione storica, nel Cristo della storia. Dunque è in questo evento, che avanza la pretesta non solo di essere effettivamente accaduto, ma di contenere una vera rivelazione di ciò che esso manifesta, che si rivela con Cristo un’aggiunta inattesa ed esemplare, che esclude però la possibilità di accettazione di quelle concezioni che si rifiutano all’inserzione di un piano della salvezza nella storia.«Il fatto centrale del cristianesimo stesso, ovvero che la verità di Dio si sia realmente comunicata in quel ‘frammento di umanità’ rappresentato dalla carne stessa di Cristo» fa insomma anche da resistenza a un’inclusione indifferenziata e per conseguenza astratta.

È del resto su questo sfondo che diviene possibile a Repole rileggere la storia del dogma e illustrarne il significato in termini non di definizione autoritaria della verità, secondo una modalità prevalentemente giuridico formale, ma come indicazione e, se si vuole, delimitazione, del luogo cui rivolgersi per attingere la verità. Una verità che resta non di meno non esaurita e misteriosa. La funzione del dogma non è quella di spiegare la verità, ma di renderla udibile e pensabile. In questo modo la verità del dogma si rivela come qualcosa di coinvolgente, il cui referente non è il singolo individuo ma l’intera comunità della chiesa. Lungi dall’essere un’astratta formulazione e dal ridursi a una forma di reificazione della verità, il dogma «si presenta, piuttosto, come ciò che vuole salvaguardare la trascendenza della verità e il suo ‘mistero’, al cospetto di ogni tentativo di razionalizzarla [come avviene puntualmente nelle eresie], custodendone il vincolo ai soggetti per cui la verità si dà e preservandone, dunque, la dimensione escatologica».

La verità della religione, se non s’identifica insomma qui con la formula dell’aggiunta, ne mantiene però il carattere accrescitivo e lo precisa nella forma di un radicamento storico (la rivelazione in Cristo) e nell’apertura escatologica.

Anche nel saggio di Philippe Capelle-Dumont, sia pure sulla base di un impianto più strettamente filosofico, il «rapporto vitale di correlatività tra l’assoluto e la storia» svolge un ruolo centrale, tanto da rendere possibile un modello ermeneutico fondato sul carattere coestensivo di tempo e verità. Centrale in ogni religione è l’idea di compimento, ma il rischio che vi è sotteso è quello di una lettura che intenda tale compimento nella forma della totalizzazione.

La categoria religiosa che consente di sottrarvisi è quella di alleanza. Come dice Capelle, «l’alleanza è il fenomeno primigenio del mondo. Quale che sia la forma del suo manifestarsi, come patto, contratto o trattato, l’alleanza riconduce alla struttura paradossale originaria del mondo e della vita… è in tal modo memoria dell’immemoriale, testamento del mondo e della vita». Filosoficamente parlando l’alleanza è il rovescio della riduzione fenomenologica, perché essa non mette capo al fenomeno ridotto ma al fenomeno irriducibile, a un termine di riferimento, che, mentre è in relazione, anche continuamente sfugge, un irriducibile strutturalmente plurale, perché non ha la modalità della reductio ad unum, ma quella dell’apertura del tempo e delle esperienze.

L’alleanza inaugura un dialogo dell’umano con il divino in cui non solo l’uomo è uditore, ma anche Dio e in cui avviene che i soggetti del dialogo, per effetto dell’alleanza,si declinano nella forma dell’accusativo: lo stesso «io sono» di Dio diviene un eccomi e non diversamente accade per l’io dell’uomo. Il dialogo, dispiegandosi in forma di alleanza, diviene una volta per tutte superamento del monologo.

Anche qui una categoria di schietta matrice religiosa come quella di alleanza assurge a paradigma per un modello di verità che travalica l’ambito del religioso e che, come l’articolo ampiamente documenta, risulta in grado di ispirare concezioni strettamente filosofiche e di dialogare con loro.

Carla Canullo, seguendo anche le tracce di quanto altrove suggerito da Giovanni Ferretti, propone, a fronte del tema del pluralismo delle religioni, e quindi della questione che vi è connessa della possibile rivendicazione di verità da parte di ciascuna, un itinerario prevalentemente ispirato alla fenomenologia. Indagato da questo punto di vista, l’atto di adesione a una verità religiosa risulta essere un atto che si svolge sullo sfondo preliminare di «una scommessa per la verità» fondata a sua volta sul presupposto che «della verità della religione si possa dire». Le specifiche e concrete pretese di verità delle diverse religioni possono certamente essere molteplici e diversificate, ma un tratto le accomuna, la «capacità di dire la verità della trascendenza e dell’immanenza, di Dio e dell’uomo», «l’avere a che fare con un decentramento da sé che non è perdita (di sé) ma ritrovamento della verità (di sé) nelle forme che l’ esperienza della trascendenza assume».

Come si può notare, sullo sfondo della proposta stanno termini come libertà, intenzionalità, esperienza. Tutto si gioca nel concreto riempimento di questa libera opzione, che, di fronte alla risposta della religione, riconosce una possibilità di corrispondenza e che fa dell’esperienza il luogo di «investimento reale ed effettivo della verità cui si è liberamente risposto – investimento che accade nell’umano e per l’umano». La verità – e in ciò si manifesta una sua interna ed essenziale connotazione – «ha da investirsi per essere effettivamente esperita e per incrementare l’umano».

La pluralità di questi riempimenti, messa in evidenza dal pluralismo delle religioni ,può così essere assimilata al pluralismo dei linguaggi conseguente alla vicenda della torre di Babele. Essa diviene il terreno su cui misurare sul piano dell’umano, senza velleità puramente conciliative, la serietà dei contenuti di cui ciascuna è portatrice.

La verità della religione, mi sembra di poter dire, consiste primariamente nella scelta per la verità che antecede ciascuna specifica adesione. Quanto poi alla verità degli specifici riempimenti di cui ciascuna è capace sul piano dell’esperienza, essa non può essere decisa a priori e in astratto, ma è lasciata al libero e severo gioco del confronto. Come nella genesiaca lotta con l’angelo, evocata anche nel saggio, la decisione di quale verità per le religioni si affronta, secondo quanto mi sembra voglia suggerire il titolo dell’articolo, a viso scoperto, ciascuno per sé, esposto ai rischi della lotta.

Il fascicolo è infine arricchito da un saggio di Mario Micheletti, che apre uno sguardo sulla tradizione analitica. Seguendo un tracciato già precedentemente sondato dall’autore, chiara è l’opzione a favore del realismo, considerato condizione per affrontare la questione religiosa con possibilità di esiti credenti. In questa linea il saggio di Micheletti conclude con la seguente considerazione: «Mi sembra che il dibattito nella filosofia analitica della religione su realismo e antirealismo teologico confermi allora che la possibilità di verità per il discorso su Dio e sulle asserzioni religiose è connessa col realismo e con una concezione realistica della verità, e che essere realisti riguardo alle asserzioni religiose implica ritenere che le asserzioni religiose posseggono un valore di verità oggettivo, indipendentemente dai nostri strumenti cognitivi; esse sono vere o false in virtù di una realtà che esiste indipendentemente da noi».

Chi avesse timore di una rivendicazione di verità timida o, al contrario, troppo sicura di sé trova in queste pagine ampio motivo per ricredersi e intensi momenti di ripensamento, in riferimento anzitutto alla polifonica complessità del concetto di verità. Un materiale di riflessione valido e utile anche per chi non aderisca a una religione.


Ugo Perone