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Di generazione in generazione

Editoriale fascicolo XXXVII, 3 (2023)


Il secondo fascicolo del 2021 di Filosofia e Teologia, curato dalla redazione milanese, aveva per tema l’ingiustizia. Lo scopo era riproporre all’attenzione la questione della giustizia, accostata, però, a partire dalle forme della sua negazione; anzi, azzardando l’ipotesi che potesse risultare fecondo muovere per una volta dall’idea di una priorità dell’ingiustizia, nella ricognizione dei luoghi del suo insorgere non meno che sul piano della riflessione teorica.

Con il fascicolo che le lettrici e i lettori hanno ora sotto gli occhi il nodo diventa il rapporto tra le generazioni. È facile immaginare le ragioni che legano le due proposte. In effetti, in un’epoca che vede moltiplicarsi le vertenze a vario titolo aperte in nome dell’ingiustizia patita e dunque della giustizia reclamata, non può non colpire e dare da pensare la protesta ormai da tempo emergente nella generazione più giovane a tutela del futuro proprio, certo, ma si direbbe a tutela ancor più di quello delle generazioni a venire. Da questo punto di vista, peraltro, si potrebbe essere indotti a ritenere di trovarsi di fronte a una versione soltanto aggiornata e ampliata del problema classico della giustizia sociale: una versione, cioè, in cui la lotta per essere inclusi secondo criteri di uguaglianza nelle prestazioni della società è estesa a favore di chi ancora non c’è; e che, per dirla con K. Mannheim, coinvolgendo nell’ambito dello stesso «legame di generazione» una certa «unità di generazione»[1] – ossia l’insieme di quanti si assumono l’onere della protesta – ripropone in fondo, sebbene in veste nuova, il conflitto che tante volte ha opposto una parte di coloro che si affacciano sulla storia a chi già ne occupa la scena. Eppure, già solo le difficoltà con cui ci si scontra – come vedremo – quando si tratta di dare una cornice teorica adeguata al problema della giustizia in quanto giustizia intergenerazionale segnalano che in gioco vi è anche dell’altro.

Un primo modo per farlo risaltare può trarre spunto dall’osservazione che quasi tutte le teorie della società moderna, siano esse di matrice filosofica, politica, economica o sociologica, hanno finora potuto concedersi il lusso di concentrarsi sui problemi della sola società: risparmiandosi cioè il compito di elaborare modelli in grado di dare conto, in più, dei rapporti di interdipendenza tra la società stessa, nel frattempo divenuta «società del mondo» (Luhmann), e ciò che invece costituisce il suo ambiente. L’ambiente, per quelle teorie, ammesso sia tematizzato, risulta una variabile in larga parte secondaria, di sfondo. Concepito come natura, vi compare tutt’al più quale terreno di conquista, risorsa produttiva, valvola di sfogo compensativa delle tensioni accumulate dagli individui nella vita sociale; talvolta, in versioni peraltro idealizzate, anche come pietra di paragone per la critica delle degenerazioni interne alla società stessa. La sordità della politica o dell’economia alle indicazioni provenienti dalle scienze che della natura invece programmaticamente si occupano mettendo da tempo in luce, fra l’altro, l’improbabilità, la precarietà e l’imprevedibilità evolutiva degli equilibri degli ecosistemi, la stessa fatica che certi temi patiscono nel farsi efficacemente strada nella comunicazione anche meno generica della società, per non dire nei vissuti delle persone – salvo catastrofi –, sono probabilmente anche il portato del perdurare di rappresentazioni ormai con evidenza troppo unilateralmente costruite. È vero, ed è doveroso registrarlo in questo contesto, che si danno anche novità in controtendenza rispetto a quanto appena detto, come ad esempio la recente modifica dell’art. 9 della Costituzione italiana che impone alla Repubblica la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, «anche nell’interesse delle future generazioni»: ma è pure vero che proprio un’acquisizione normativa di tale portata presuppone inevitabilmente, per la sua efficace attuazione, lo sviluppo di modelli teorici adeguati. In ogni caso, sebbene non basti certo la protesta in nome della questione ambientale, né, di per sé, la diffusione di una maggiore sensibilità in proposito a colmare il deficit teorico accennato, è però interessante osservare che, nella discussione che vede protagonista almeno una parte della nuova generazione, il problema posto non è più semplicemente quello di potenziare le condizioni di accesso al benessere sociale continuando a ignorare i costi ambientali, ma precisamente quello di portare in primo piano l’impatto ambientale della riproduzione societaria anche al prezzo di rivedere, o di problematizzare radicalmente, le forme tradizionali del benessere sociale. La sollecitazione che ne viene al pensiero va dunque anzitutto nella direzione di un’estensione della cornice oggettuale di riferimento: la questione intergenerazionale non investe cioè semplicemente i rapporti intrasociali tra le generazioni (così come tra altri soggetti), ma al contempo i rapporti che le generazioni (o altri soggetti), nel relazionarsi tra loro, intrattengono con un ambiente che di quegli stessi rapporti risente e su di essi, a sua volta, incide.

La prospettiva generazionale, tuttavia, mette in gioco anche un orizzonte ulteriore che, oggi, sembra retroagire tanto sulle questioni sociali quanto su quelle ambientali rendendo particolarmente arduo dare conto in maniera adeguata della complessità del quadro d’insieme: si tratta, come è facile intuire, della variabile tempo. Il riferimento alle generazioni è infatti una modalità, antichissima, di rappresentarsi, secondo un ritmo non troppo breve, non troppo lungo, il fluire del tempo. Ancorata ai cicli di vita, essa ha permesso di dare un volto, un volto umano, al mutare dei tempi, proiettandolo, però, sullo sfondo di ciò che, al di là dell’umano, permane: «Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa» (Qohelet 1,4). L’autocomprensione in termini generazionali ha consentito dunque di registrare le variazioni della storia senza perdere di vista tanto i legami di continuità – i «ponti» tra le generazioni – quanto, al fondo, l’unità e l’uniformità del mondo. Ma, per quanto si diceva sopra, è proprio quest’uniformità a non poter essere più assunta, oggi, separatamente dalle vicende che investono gli esseri umani e le dinamiche della loro vita associata. Tempi delle esistenze, tempi sociali e tempi della natura si implicano e si vincolano reciprocamente, con esiti a breve, medio e lungo termine spesso drammaticamente imprevedibili.

Ecco allora la proposta di un numero di Filosofia e teologia vòlto a scandagliare proprio le forme dell’autocomprensione generazionale: per mettere in luce le possibilità di senso che esse dischiudono, ma anche i vincoli ed eventualmente le aporie che si connettono alla loro assunzione. Un numero che, si è detto, prolunga l’indagine avviata intorno alla giustizia e all’ingiustizia, ma, come attestano in particolare alcuni interventi di taglio teologico, incrocia anche il tema del primo fascicolo curato dalla redazione milanese (Delle cose ultime. Orizzonti dell’escatologia), nel quale il motivo della «attesa del Regno e [del]la tensione a un compimento del mondo sul piano etico in presenza di una situazione “disperata” della creazione» – così nell’Editoriale – emergeva bene nel suo nesso con la valenza che la dimensione metaforica e iconica del riferimento al trascendente riveste in relazione alla costruzione, appunto, della città terrena.

La varietà e la ricchezza dei contributi selezionati nel presente numero non si lasciano qui riassumere, ma si può forse indicare nella tensione fra continuità e discontinuità con cui il tempo insieme lega e separa, nell’osservazione, le generazioni – fino a obbligarci forse a immaginare, oggi, quelle future nella loro radicale non contemporaneità –, uno dei motivi di fondo da cui essi sono attraversati.

Così il saggio di Massimo Giuliani, dopo aver delineato sotto il profilo semantico-lessicale i termini usati nel contesto dell’ebraismo per designare le generazioni e aver individuato nella trasmissione della memoria condivisa attraverso l’insegnamento, anche liturgicamente strutturato, ciò che le connette al di là del loro susseguirsi biologico, esamina il tema del «declino» generazionale presente in alcune fonti del giudaismo rabbinico, mostrando come vi abbia reagito Maimonide (e più di recente Levinas) in nome di una dottrina messianica che chiama invece ogni generazione a farsi carico, per sé e per ogni altra, della responsabilità di far progredire, nei modi e nei limiti che le sono concessi, verità e giustizia.

Donatella Scaiola raccoglie e commenta invece una serie di luoghi biblici (Genesi, Giuditta, 1Cronache, fino alla genealogia di Gesù riportata nel Vangelo secondo Matteo) in cui l’impianto tradizionalmente patrilineare delle genealogie è spezzato dall’interposizione di figure femminili e pone dunque il problema delle diverse funzioni da esse rivestite nei punti di cesura di quello schema.

Si integra in tale quadro anche il saggio di Irene Barbotti, maturato in concomitanza con la preparazione del fascicolo, però collocato nella sezione non monografica. Il contributo infatti non interviene direttamente sul motivo del transito generazionale nel contesto biblico, ma ne illumina la cornice escatologica a partire da un’esegesi serrata delle occorrenze della formula apocalittica «un nuovo cielo e una nuova terra»: formula di interesse, nell’economia di quanto si diceva, nella misura in cui la corrispondenza di Urzeit ed Endzeit che in essa risuona non si lascia ricondurre alla «prospettiva puramente antropocentrica espressa da Gal 3,28», ma investe soprattutto «la dimensione “cosmologica” della promessa di una nuova creazione». Rispetto al tempo, dunque, più che l’attesa di un compimento, il richiamo alla necessità di una rigenerazione.

Anche Piero Coda sceglie di non tematizzare in senso stretto il rapporto tra le generazioni, ma di intervenirvi per così dire di taglio: illuminando cioè quello che per il cristianesimo ne è il cuore pulsante, in quanto archetipo fondativo del suo stesso specifico universalismo, vale a dire la complessa relazione Padre/Figlio di cui vive il simbolo trinitario. Una relazione che, secondo Coda, una volta liberata sotto il profilo esegetico e teologico dal paradigma di impianto gerarchico e patriarcale a lungo dominante e riconsegnata al rapporto di reciproco riconoscimento tra il Padre e il Figlio, è suscettibile non solo di svelarsi nel suo decisivo significato «antropologico e socio-culturale», ma anche di riaprire il discorso sull’identità stessa del cristianesimo: inevitabilmente calato nella contingenza, «ma al tempo stesso sempre al-di-là della sua espressione storica».

Se i contributi di I. Barbotti e quello di P. Coda abbordano il tema delle generazioni riflettendo sulla cornice escatologica nel primo caso e sul nucleo trinitario nel secondo, il lavoro di Andrea Grillo entra invece nel merito del tipo di mediazione che rende possibile il rapporto tra le generazioni, combinando una rilettura del passo aristotelico della Politica sulla politicità dell’uomo in quanto zôon lógon échon con la valorizzazione, in linea con la «svolta linguistica», del linguaggio «come ciò che riceviamo per tradizione e per autorità da una comunità vivente». La mediazione in questione è così evocata sotto la formula «traduzione della tradizione»: ovvero traduzione inevitabilmente motivata e sostenuta dalla tradizione, ma anche tradizione che sempre e di nuovo esige la traduzione. Di qui, secondo l’Autore, anche la possibilità di «una fine mediazione tra la classica relazione tra essere e divenire e la figura di un essere di Dio che è nel divenire».

Se i saggi fin qui menzionati, pur nella diversità dei contenuti e dei metodi, hanno il merito di portare allo scoperto e di mettere a fuoco una varietà di impulsi alla riflessione intorno al rapporto tra le generazioni radicati in particolare nella tradizione ebraica e in quella cristiana, altri, invece, affrontano in una prospettiva più attenta alla discussione contemporanea vuoi il problema di una ridefinizione del concetto di generazione, vuoi il confronto con le specifiche difficoltà filosofiche poste dall’urgenza di un ripensamento dell’etica e della politica in chiave intergenerazionale, vuoi, infine, il peso che il riferimento alla guerra e alla sua logica ha spesso rivestito nell’interpretazione della vitalità e dunque del succedersi delle generazioni.

Sul primo versante, Andrea Bianchi muove dalla necessità che il presente ha di trovare «soluzioni teoriche e pratiche per sbloccare lo stallo che impedisce un dialogo reale tra le generazioni», per proporre di accostarsi alla nozione di generazione guidati dalla prospettiva aperta dalle teorie del riconoscimento primario (D. Winnicott, A. Honneth, J. Benjamin) portate a valorizzare proprio il ruolo decisivo rivestito in esso dall’esperienza del negativo.

Sul secondo versante si inseriscono invece i tre contributi di Michele Illiceto, Ferdinando G. Menga e Sergio Labate. Il primo fornisce una preziosa panoramica delle teorie che oggi cercano di rispondere alle questioni di etica intergenerazionale, osservando, anzitutto, come «tutti gli interrogativi convergono in un’unica grande domanda […]: “come facciamo a giustificare una nostra eventuale responsabilità nei riguardi dei soggetti futuri visto che non sono ancora esistenti?”». Modelli contrattualisti, utilitaristi, giusnaturalisti, teorie della reciprocità indiretta e teorie di matrice etico-fenomenologica sono dunque convocati intorno al nodo posto da quella non-contemporaneità delle generazioni future, da quella radicale differenza temporale, che sembra far saltare ogni prospettiva centrata su relazioni di reciprocità o su dinamiche di circolarità. Anche F. G. Menga, la cui posizione complessiva è peraltro tra quelle esaminate da Illiceto, muove da un interrogativo sulla funzione dello spazio pubblico di fronte all’emergenza politica costituita dalla giustizia intergenerazionale collocando significativamente tale spazio appunto «al bivio fra inclusione ed esclusione del futuro». Prendendo spunto dall’evocativo accostamento da un lato di quelle che egli chiama «icone dei nostri tempi angosciati» e dall’altro, con Nietzsche, degli «assenti futuri», individua precisamente nell’intersezione che i due registri suggeriscono il punto in cui «dovrebbero sostare un’etica, una politica, ma anche un diritto, attenti a prendersi cura delle “vulnerabilità a venire”.» L’articolato saggio di S. Labate, infine, prende di petto le due aporie rintracciabili nelle forme in cui oggi vengono rappresentati i legami intergenerazionali: per un verso, quella imperniata sull’idea di obbligazione morale – cui riconduce la lettura del rapporto intergenerazionale in termini di giustizia –, la quale fatica, tuttavia, a tenere insieme la salvaguardia dell’alterità delle generazioni future e la rinuncia all’appropriazione «paternalistica» di esse; per un altro, quella centrata sull’idea di conflitto, oggi reso però apparentemente inconciliabile dal «duplice cortocircuito» che oppone «giovani che sanno più degli anziani» e «anziani che stanno meglio dei giovani». La risposta è cercata non in un tentativo di sciogliere l’aporia – il che vorrebbe dire tornare all’impossibile primato dell’identità, della simmetria, della reciprocità – ma piuttosto di custodirla in nome di un’aporia più feconda, quella che, con Levinas (e, sulla scia di questi, con Mario Vergani), nomina la necessità di «una relazione tra due termini che si sciolgono dalla relazione stessa». Una relazione che Labate propone di cogliere nella categoria del debito, inteso per un verso come debito innegabile e assoluto e per un altro come tale da non poter esser altro che restituito: luogo (tempo?), dunque, di una «responsabilità aporetica», la cui fecondità traspare in quella che, sempre Levinas, ha delineato sotto il titolo di etica dell’insegnamento.

Il terzo e ultimo versante – e ci avviamo così alla conclusione – è occupato da un’approfondita riflessione di Leonardo Samonà che prende le mosse dalla tesi eraclitea concernente la funzione vitale del pólemos «padre di tutti», si sofferma sulla diagnosi hobbesiana circa il tratto univocamente antropico della guerra – al fondo inestirpabile in quanto «tempo dell’incertezza peculiare della vita umana, tempo di una vita disseminata di ostacoli, e insieme tempo sempre sospeso […] nella ricerca mai garantita di futuro e di pace» – per approdare poi a una serrata analisi del problema in Hegel: da una parte certamente «l’autore che traghetta […] la vitalità naturale della guerra in quella spirituale», dall’altra colui che proprio nella guerra, «segno eminente del difetto essenziale di “realtà” dello spirito oggettivo», individua il momento che si oppone alle forme di superiore riconciliazione dello e nello spirito. Proprio la possibilità della riconciliazione marca il punto di torsione del saggio di Samonà che, dopo aver esaminato la soluzione girardiana relativa a una pacificazione che, vanamente cercata nell’immanenza della storia, può trovare attuazione solo ad opera dell’intervento esterno di una rivelazione divina, conclude con un’apologia della pace concepibile invece «solo come una decostruzione interna della logica del conflitto e della presunta razionalità della guerra»: una pace che, di qui, può farsi allora vera e appropriata «misura della razionalità del reale», in quanto «unica portatrice di generazione, […] unica traghettatrice delle generazioni nel corso del tempo e verso il futuro».

[1] K. Mannheim, Le generazioni, Il Mulino, Bologna 2008, p. 76 (or. 1928).