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Abitare l’incertezza

Editoriale fascicolo XXXVIII, 1 (2024)


La questione che si vuole affrontare nasce da una riflessione sull’esperienza umana sempre più esposta all’impossibilità di una previsione quantitativa, ma anche qualitativa degli eventi, delle esperienze e dei saperi che ne illuminano il senso.

Pandemia, guerre, calamità naturali restituiscono ai singoli, ma anche alle collettività, la percezione dell’assoluta esposizione all’accadimento di eventi che, se pur prevedibili, sfuggono al controllo e alla determinazione logico-pratica.

Nonostante la pretesa della scienza e della politica di poter governare il flusso degli eventi naturali e antropici, c’è un resto che si sottrae ad ogni possibile controllo. Si dirà che questa esperienza è connaturata all’essere umano che ha dovuto portare innanzitutto al logos questa percezione e, in secondo luogo, ha elaborato categorie logico-pratiche che gli hanno consentito di restringere sempre più il margine dell’incertezza. Le grandi elaborazioni metafisiche dell’antichità e dell’età moderna possono essere lette come la risposta alla questione del divenire dell’essere che comprendeva in sé la sua possibile catastrofe. Il tentativo di portare al linguaggio l’elemento permanente dell’essere del reale – fosse questo l’eidos o l’ousia di antica memoria o la reificazione quantitativa elaborata dal pensiero scientifico moderno – rimane un tentativo incompiuto, anche nelle forme del pensiero computazionale e dell’intelligenza artificiale. Ogni tentativo di dare limiti certi si scontra con la rilevazione dello scarto tra la misura attesa e quella di volta in volta effettivamente data (come nel caso della misura del chilo che non è mai un chilo o del metro che non è mai un metro).

La crisi delle certezze, faticosamente costruite nella prima modernità, si è accompagnata a una riflessione sul senso delle categorie che ne avevano accompagnato l’elaborazione in tutti gli ambiti del sapere, da quello scientifico a quello filosofico e teologico a quello artistico. Alla messa in discussione dell’immagine fisica del mondo come materia determinabile e alle conseguenti teorie che hanno posto all’attenzione l’elemento energetico/dinamico della materia, mostrandone la radice espansiva come tendenzialmente entropica, si è accompagnata una riflessione sulla crisi del soggetto come fondamento metafisico, radice di verità e certezza. Così quello che viene definito un pensiero metafisico capace di dare conto dei principi veritativi dell’essere tanto fisico quanto morale viene sottoposto ad analisi finalizzate a mostrarne le aporie e a distruggerne la pretesa veritativa.

In un orizzonte nichilista, l’incertezza appare come uno dei modi in cui è possibile declinare l’essere, ovvero uno dei modi in cui l’essere si mostra nella fattualità della vita quotidiana. La domanda è infatti se l’incertezza di cui si fa esperienza sia solo una percezione psicologica o se di fatto essa riveli una modalità d’essere che appare pensabile non più come eidos/substrato/res/principio/causa, ecc. bensì come senso perennemente sospeso alla volontà di chi lo produce. In realtà, si potrebbe sostenere che l’assenza di fondamento rimane essa stessa un’aporia del pensiero nichilista poiché, invero, in esso non si rinuncia al principio in senso metafisico, semplicemente si assume la possibilità del nulla come principio.

La rinuncia alla ricerca di principi fondativi ha traghettato definitivamente il pensare nel mare aperto dell’equivalenza dei discorsi e, alla fine, alla rinuncia ad un’immagine logica cui corrispondesse un substrato veritativo dell’essere e dell’esistere. Venuta meno ogni certezza relativa a un possibile principio dell’essere e dell’agire, si è assunto come principio l’indeterminata possibilità dell’essere, sospesa all’evento del suo accadere. L’assenza di principi fondativi e l’equivalenza dei valori e dei logoi che li rappresentano ha così determinato un’inflazione del senso e dell’etica, ovvero l’equivalenza dei discorsi e delle azioni. Queste ultime non sono più dettate dall’adesione a valori condivisi dalla comunità per il bene della comunità, ma dall’adesione mai definitiva a valori che sono espressione solo più dell’interesse privato e momentaneo. In assenza di altri principi, il godimento e il potere sono, di fatto, i principi ispiratori del pensare e dell’agire individuale e collettivo.

L’incertezza si presenta così come l’alea, il resto sospeso all’arbitrio del caso e/o dell’individuo che assume su di sé (se ne ha la forza e la consapevolezza) la responsabilità di essere principio arbitrario di scelte e di azioni che generano relazioni sospese. E, tuttavia, se si assume l’incertezza come il rischio inevitabilmente connesso ad ogni nuova nascita, se si accoglie l’incertezza quale orizzonte di senso di un’esistenza chiamata al suo continuo trascendimento, se si accetta di sostare nel vuoto di un presente ancora incompleto, ci si dispone nell’orizzonte di una logica della creazione e non della ripetizione, ovvero dell’emergenza del radicalmente nuovo e non del già sempre stato. Mettere in gioco il dato con il suo portato rassicurante, ma anche il suo puzzo stagnante, consente di guardare i frammenti della propria esistenza non dal punto di vista di un’identità già data, certa perché fondata in un principio veritativo immutabile, ma come elementi di un disegno tutto ancora da costruire, aperto alla possibilità del suo definirsi come del suo possibile rimanere nel nulla del suo essere indefinito.

Nel mentre stravolge le abitudini quotidiane, l’incertezza offre l’opportunità di vivere il kairòs (il momento supremo), il tempo propizio, il tempo giusto per ripensare il mondo (e il mondo è sempre l’insieme delle relazioni che ciascuno di noi vive e delle dinamiche che le sottendono). Questo tempo non ha nulla a che vedere con la ripetitività dell’istante sempre uguale del tempo cronologico, ma è il tempo dell’evento che si spalanca davanti a noi come abisso, come un tempo/non tempo che dura il tempo dell’esperienza che in esso si consuma.

In realtà, proprio in questo tempo sospeso, se si ha il coraggio e la forza di viverlo nella sua sospensione, è data la possibilità di ritrovare spazi impensati di libertà individuale, di responsabilità personale e di democrazia partecipata.

Se si ha la forza di sopportare il vuoto, si può provare a guardare il mondo (tanto quello naturale che quello sociale e familiare) ripensandolo da un altro punto di vista: non quello del consumo, ma quello della cura e della custodia.

Guardare il mondo dal punto di vista del consumo porta ad una relazione con le cose di tipo appropriativo. È necessario appropriarsi delle cose per poterle consumare e, poiché le risorse sono limitate, bisogna accaparrarne quanto più possibile e a qualunque costo, spesso buttando quello che si è acquisito in eccesso perché deperibile. In questo mondo la ricchezza, intesa come capacità di accesso alle risorse, è ristretta nelle mani di pochi che non solo non sono disposti a condividere ciò di cui dispongono, ma guardano all’altro che chiede di poter partecipare all’accesso alle risorse come nemico da combattere ed espellere. Diversamente, guardare il mondo dal punto di vista della cura e della custodia consente di non guardare le cose dal punto di vista dell’appropriazione, bensì da quello della partecipazione, nella consapevolezza che, essendo le risorse limitate, esse vanno strategicamente condivise, attivando meccanismi di godimento che non fanno leva sul consumo, bensì sulla partecipazione alla creazione di un mondo in cui le relazioni precedono i consumi, le relazioni affettive e non le cose colmano i vuoti.

In questa prospettiva, si propone, in apertura del fascicolo, nella sezione Questioni, il saggio di Alessia Maccaro che muove dall’esperienza concreta dell’incertezza, esperita durante la pandemia da Covid-19, che non ha trovato garanzia di certezze o rassicurazioni né nella scienza né nella politica. Entrambe, nel tentativo di rassicurare, si sono rese artefici di un agire confondente che è stato la scaturigine di una catena di conseguenze controverse, fino ad ottenere esattamente il contrario di quanto esse volevano produrre (rassicurare che tutto sarebbe andato bene). Facendo proprie le tesi di Sheila Jasanoff, il contributo mostra attraverso l’analisi di un caso concreto quanto si sia dimostrato fallimentare l’atteggiamento di presuntuosa pretesa di essere preparati ad un futuro ignoto, incerto ed imprevedibile. Tali fenomeni sono stati, poi, interpretati attraverso la chiave di lettura del volume di Martha Nussbaum, La monarchia della paura, ove si chiarisce come l’incertezza possa essere causa di sentimenti di paura che alimentano atteggiamenti individualistici e antidemocratici. Tuttavia l’incertezza è oramai un dato non più superabile e, se non è possibile esserne preparati, allora è solo possibile auspicare una disponibilità al nuovo sopravveniente che maturi nel contesto della solidarietà globale, intesa come azione dialogica congiunta di scienza e istituzioni che si avvalga di una maggiore partecipazione dei cittadini in vista di una più ampia governance democratica.

Dal punto di vista di una prospettiva teologica, si è provato a leggere l’incertezza quale principio fondativo di una fede esodica. La chiamata alla fede è infatti innanzitutto chiamata all’abbandono delle certezze e delle evidenze logico/etico/politiche per avventurarsi nel deserto del senso in cui la Parola rivelata si mostra quale principio di una nuova creazione: la creazione di un popolo che trova nelle dieci parole ‘comandate’ la radice di un nuovo senso capace di ridare identità alle parole altrimenti abbandonate alla deriva babelica del logos individuale. L’incertezza del senso cui chiama la fede (espressa nei simboli dell’Esodo e della Croce) restituisce all’uomo la nudità dell’origine edenica e gli riassegna la custodia della vita, del bene e del male. Una custodia che ancora una volta è affidata alla scelta che uomini e donne compiono individualmente e collettivamente. Nel saggio di Carlo Manunza sj, l’incertezza è la cifra ontologica di un essere che si costituisce come ‘noi’ nel rispetto del mistero dell’altro. L’incertezza percepita come mancanza, deprivazione, impossibilità del pieno controllo e possesso dell’alterità è avvertita individualisticamente come minaccia. Eppure, è proprio l’abbandono delle certezze del clan, della terra e del senso dato, che consente ad Abramo di uscire dalla prospettiva del controllo individuale e riconoscere il futuro come lo spazio/tempo che si forma a partire dalla interlocuzione con un’alterità la cui voce si mostra come il gratuito interessamento alla sua vita e che, pur nell’assoluta incertezza della realizzazione, apre ad una vita fondata nel noi. La chiamata obbliga ad abbandonare le certezze legate alla conoscenza, al controllo e alla disponibilità di cose (la terra natale, i legami con la parentela e i genitori) per avanzare in un noi con Dio che non offre certezze ma solo il proprio interessamento. Accogliere la prospettiva del noi consente di guardare all’incertezza come fondamento di una vita che rinuncia alla certezza del possesso che, nonostante ogni accumulo, non libera dalla sterilità e dalla morte e apre alla possibilità di un’esistenza che emerge dall’accoglienza della novità gratuita ed imprevedibile della vita dell’altro.

La questione del rapporto tra certezza del sapere e incertezza dell’esistenza è affrontata, seppur con presupposti differenti, dai saggi di Gian Paolo Cammarota e Alfonso Lanzieri. Il primo affronta la questione del rapporto dialettico e dialogico tra la certezza della conoscenza e l’incertezza della fede, assumendo la certezza morale di kantiana memoria quale fondamento di una fede razionale che supera l’incertezza, rassicurando, consolando e liberando dalla paura; il secondo pone la questione della fiducia nella ragione quale fondamento intuitivo del nostro dare senso alle modalità di costituzione del mondo e della sua conoscenza, unica possibilità per affrontare la divaricazione tra certezza del sapere e instabilità dell’esistenza non in vista del suo superamento, ma per poter abitare proficuamente l’incertezza.

 Infine, il contributo di Antonio Trupiano indaga il risvolto etico/politico di un’ontologia dell’incertezza. L’imprevedibilità e l’impredittibilità del futuro generano un sentimento di incertezza cui non si risponde né con l’esaltazione narcisistica del frammento, dell’individuale, del provvisorio, la quale trova nel godimento la radice e il principio di ogni agire, né con il rifiorire nostalgico dei nazionalismi, della riduzione dell’economia ad accumulo, della ricerca di verità non negoziabili, della speranza di soluzioni forti che arginino il caos. L’instabilità è un ingrediente del reale che esige una coraggiosa assunzione di responsabilità nei confronti del possibile non ancora visibile e dispone, in una prospettiva escatologica, ad un’azione retta dalla speranza piuttosto che dalla progettazione.

La sezione Figure è introdotta dal saggio di Angelo Maria Vitale che analizza la visione blochiana della natura fisica come ‘scenario’ incompiuto e in fermento, caratterizzato da oscillazione e incertezza. La natura intesa come materia inerte scompare per lasciare il posto ad una soggettività emergente non nel senso di una sostanza sviluppantesi, ma come libertà e possibilità sospese all’incertezza del loro determinarsi. Il contributo mostra quanto questa prospettiva, che si arricchisce nel tempo del confronto con la filosofia romantica della natura e da una reinterpretazione della concezione aristotelica della materia, dipenda dal paradigma gnostico marcionita adottato sin dagli anni giovanili.

Segue l’intervento di Francesco Miano dedicato alla ricerca delle radici ontologiche della libertà umana nella filosofia del vivente di Hans Jonas. In Jonas, il carattere multidimensionale e polisemico del concetto di incertezza e il legame tra l’ontologia della libertà, l’etica della responsabilità e la nozione di organismo, sono individuati già nel metabolismo, che, in quanto strato basilare di tutta l’esistenza organica, rappresenta la prima forma di libertà. Il contributo declina il tema dell'incertezza a livello dell’auto-organizzazione dei fenomeni vitali e cognitivi, giungendo infine a considerare l’emergenza dell’azione libera delle forme della volontà umana. A questo livello, l’incertezza, non più intesa solo come ‘indipendenza’ e ‘autonomia’, diviene contingenza, fragilità, vulnerabilità che interpella tanto la responsabilità umana quanto il suo contraddittorio rapporto con il tema della paura. Il rapporto tra l’esperienza dell'incertezza e della transitorietà e la ricerca di stabilità che si accompagna ai contesti delle decisioni pubbliche, reclama, infine, la necessità di una aumentata responsabilità in grado di abbandonare le caratteristiche canoniche di retrospettività e punibilità, per evolversi nell’obbligo di far fronte all’incertezza al fine di preservare e migliorare il destino delle generazioni future.

Il saggio di Alessio Lembo affronta la questione della certezza in Leo Strauss. Obiettivo del testo è investigare le ragioni sottostanti la ricerca straussiana che conducono l’autore ad affrontare la questione della certezza delle dimostrazioni filosofiche contro ogni possibile discorso rivelato. La scelta della supremazia del pensiero di Atene nei confronti della parola rivelata di Gerusalemme conduce Strauss ad assumere lo scetticismo socratico e il criticismo spinoziano come le uniche vie di ricerca che, rinunciando ad ogni possibile certezza teologicamente fondata, si facciano carico della costruzione di un discorso sensato sul reale.

Nel saggio di Cloe Taddei Ferretti, l’incertezza è analizzata quale dubbio da cui le virtù teologali dovrebbero salvarci e che trovano solo nella trascendenza divina il fondamento di una possibile rassicurazione.

Infine, il saggio di Edoardo Cibelli discute il significato dell’incertezza dal punto di vista della ricerca fisica e neuroscientifica mostrando come l’incertezza sia intrinseca a qualunque tipo di misurazione sia fisico che matematico. Richiamando le più importanti scoperte fisico/cosmologiche del novecento, viene mostrato come l’incertezza non riguardi l’inconsistenza della capacità conoscitiva umana o lo strumento di misurazione utilizzato, ma la complessità della materia di cui è costituito l’universo.  Ed è l’osservazione su quanto accade all’esterno dei buchi neri che conduce ad affermare che resta del tutto incerta la conoscenza della materia e dell’energia oscura che occuperebbero gran parte dell’universo, senza emettere radiazioni. Analogamente le neuroscienze nell’indagare il rapporto tra coscienza e stati mentali non sono riuscite allo stato attuale ad elaborare alcuna teoria formale di tipo deterministico e pertanto in modo da renderla implementabile in un agente artificiale. Ed è questa incertezza a spingere la ricerca scientifica ad assumere l’indeterminazione e l’incertezza come misura dei fenomeni che indaga in una prospettiva escatologica, intesa quest’ultima come spazio di rivelazione dell’indeterminato tanto nel sapere teologico, quanto in quello scientifico.

Abitare l’incertezza appare, dunque, insieme un destino, poiché da esso non è possibile sottrarsi, e una destinazione, visto che in questo abitare è possibile che il singolo si riscopra come costitutivamente abitato da un’alterità che esige un affidarsi oltre ogni possibile misura e certezza. In questo affidarsi rischioso, la paura non è vinta attraverso il possesso e la certezza del risultato, ma nel lasciarsi prendere in carico, nell’accettare il rischio di essere in balia dell’altro. Imparare a sostare nell’incertezza offre l’opportunità di confrontarsi con il limite e il negativo dell’esistenza senza avere fretta di superarlo; vuol dire imparare a sostare nel dolore, imparare a piangere e lasciarsi consolare, imparare che non siamo invincibili e che vivere non vuol dire sempre vincere. Abitare l’incertezza ci insegna a perdere, provando fino in fondo il dolore della sconfitta, ci insegna a guardare oltre il dato, ad accogliere la morte nella vita, sapendo che per vivere è necessario lasciar morire una parte di noi, delle nostre esperienze, delle nostre certezze e abitudini. La vita personale e collettiva si costruisce attraverso le perdite: i progetti infranti, le relazioni interrotte, le certezze distrutte.

Non è un caso che nella tradizione cristiana, la croce sia il simbolo di questa logica. Nella croce, tutto ciò che è dato è inchiodato e dolorosamente fissato nel suo senso presente, ma è proprio la crocifissione del dato che rende possibile la resurrezione, ovvero la nascita di nuovi e inauditi scenari di senso, di nuove e inaudite possibilità di vita. Ogni volta che appendiamo al chiodo una parte della nostra vita, si aprono nuove possibilità di esistenza, cui non avremmo mai potuto pensare se non avessimo avuto il coraggio di perdere una parte di noi.

Abitare l’incertezza è infine la possibilità di imparare a viaggiare nel deserto del senso e delle sue certezze con un’unica bussola: la speranza, che punta il suo ago nella direzione di ciò che deve ancora accadere.

Elisabetta Barone