Fascicolo XXXVI (2022), 2, Del rito / Editoriale

Oreste AIME


Una cosa da tempo dimenticata. Nella favola più diffusa nel Novecento, diventata quasi un mito moderno, Il Piccolo Principe di Antoine de Saint- Exupéry, la volpe che svolge il compito dell’iniziazione alla vita degli umani nei confronti del piccolo ospite venuto da altrove, parlando dei rapporti che tra di loro si stanno imbastendo, accenna alla necessità dei riti. Al Piccolo Principe che domanda che cosa sia un rito, risponde: «Anche questa, è una cosa da tempo dimenticata. […] È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore». In Cittadelle, opera di poco posteriore e rimasta incompiuta, nella quale il tema del rito è una costante, Saint-Exupéry fa dire: «i riti sono nel tempo ciò che la dimora è nello spazio»[1].

«Una cosa da tempo dimenticata» – già così si diceva nel 1943 e così si ripete oggi, con acquiescenza, con costernazione o con tono dubitativo. Nella modernità si è rotto o largamente allentato l’antico legame simbolico e rituale tra il cosmico, il politico e il religioso. I processi di secolarizzazione, comunque siano intesi, hanno investito anche questi nessi e le loro relative dimensioni di senso; ciò che un tempo si presentava come rito, ora ne è profondamente distinto (ad esempio la danza, il gioco; così pure i momenti di passaggio: la nascita, la morte, la pubertà…). Tuttavia il rito non è solo cosa che riguarda il sacro; ha avuto e continua ad avere una funzione importante nella politica, che talvolta assorbe in sé la stessa sacralità, e nell’anonima vita quotidiana. Non si deve poi dimenticare che in tempi più recenti si è imposta socialmente e culturalmente una tendenza che mirava alla liberazione dal rito in nome della spontaneità e dell’autenticità in generale e a riguardo dello stesso rito in particolare. Questo atteggiamento sembra aver raggiunto il suo obiettivo, all’apparenza, per quanto rituali e cerimoniali, pubblici e privati, con tratti castali o folkloristici e persino esoterici, non siano del tutto scomparsi, talvolta persino rozzamente ricuperati.

Conferendo al rito solo costrizione e esteriorità, negandogli la possibilità di essere o di indurre un’esperienza – del corpo, del tempo, della relazione, della trascendenza – non si decurta qualcosa dell’umano? I riti stanno scomparendo oppure sono coinvolti nella «metamorfosi del mondo»? Sono ancora riti sociali o sempre più individuali, a misura della «società individualizzata»? Quale può essere la loro fonte istituente, nell’indebolimento generale della religione e della politica?

 

Rito, società, soggetto. Il rito è tanto coestensivo alla società e alla cultura quanto indispensabile alla definizione dell’individuo, in stretta connessione con la costituzione dell’azione sociale e individuale e il disciplinamento delle abitudini e delle relazioni in ogni ambito di vita. Proprio questa onnipresenza può renderlo invisibile, anche per gli avvenuti processi di secolarizzazione, che hanno disgiunto il rito esplicitamente sacrale da quelli presenti in altri contesti e funzioni. Per questi motivi, dunque, è qualcosa di dimenticato ma non di assente, attivo per quanto in modo inconsapevole, censurato ma non eliminato. Un semplice saluto, modulato in maniere molto diverse nelle culture, mantiene un ineliminabile tratto di ritualità, che solitamente non si distingue dai comportamenti e dai linguaggi ordinari.

Rispetto ad altre produzioni di senso e di relazione, il rito ha una caratteristica singolare e propria: è ed intende essere efficace; nella sua performatività impone ordine e gerarchia, crea senso o abitudine, si dilata nei tempi e li contrassegna, promette o instaura spazi di esperienza. Poiché mira all’efficacia, quasi mai esibendo motivazioni al suo esistere e influire, assomma alla sua invisibilità l’ubiquità del potere e dei poteri. Tanto il rito esercita potere quanto il potere, di qualunque tipo, istituisce riti o semplicemente cerimoniali, con un’estensione che va al di là del politico.

Nel mondo medievale le fiere svolgevano un ruolo economico e sociale importante, anche perché avvolte da un’aura sacrale (si pensi a Chartres). La «Grande Trasformazione» (Karl Polanyi) ha disgiunto l’economia dal religioso (e dal cosmico), e poi dall’etica e dalla politica; eppure la società produttiva trasformatisi in società dei consumi ha mantenuto e reinventa continuamente a suo uso la dimensione rituale. Spesso in Occidente i consumi hanno sostituito il tempo (la domenica) e lo spazio (le chiese) del sacro: la spesa diventa un pellegrinaggio, i grandi magazzini i luoghi di un culto, alcune date momenti di festa di massa (Blackfriday), la distribuzione si accaparra senza residui il tempo. Registrando questi sviluppi, ci si pone la domanda quanto di effettivamente rituale in senso proprio resti in questi comportamenti e quanto di costrizione manipolativa. Forse si può affermare che la ritualità non scompare, ma cambia di senso e con nuove attribuzioni di funzioni sacrali, per quanto surrogate.

L’espressione eminentemente sociale del rito non ha implicazioni minori sul piano del soggetto, che non è coinvolto però dal punto di vista coscienziale bensì immediatamente corporeo. Questo tratto potrebbe aver avuto conseguenze significative per la mancata adozione del rito da parte della riflessione filosofica. «L'io è prima di tutto un io corporeo. Di conseguenza, le esperienze e le azioni fisiche impegnano la coscienza in maniera più immediata e irresistibile e forniscono un senso della realtà molto più intenso di qualsiasi filosofia mentale o affermazione di fede. Gran parte del simbolismo rituale attinge alle esperienze sensoriali più semplici e intense, quali l'alimentazione, la sessualità e il dolore». In quei gesti «presenze primordiali vengono nuovamente rese attuali, il tempo viene rinnovato e l'universo rigenerato»[2]. Si potrebbe pensare che sia stato l’influsso platonizzante a scotomizzare questo elemento; probabilmente non è così. Infatti la recente concentrazione monistica sul corpo, secondo un’ispirazione spinoziana, sintomaticamente elude il tratto rituale, sia nelle sue espressioni abituali quanto nelle sue derive patologiche (ad esempio le autopunizioni e mutilazioni adolescenziali).

 

Il rito, la filosofia e la teologia. La sociologia e l’antropologia culturale, fin dai loro esordi, hanno ampiamente rilevato e studiato la forza strutturante del rito nel modellare la società e la cultura. A loro volta la fenomenologia e la storia delle religioni ne hanno ampiamente descritto la funzione in ordine al sacro e al santo. L’accento è così caduto sul versante sociale o culturale o religioso; pur da prospettive parziali e talvolta discutibili, queste indagini non hanno quasi mai mancato di riservare al rito il posto dovuto. In tutti questi approcci il rapporto con il simbolo e il mito ha posto la questione del suo senso, talora impenetrabile o ingiustificabile, spesso perduto nella sua storia.

Ciò invece non è quasi mai avvenuto nella prospettiva filosofica; il dialogo, non solo aporetico ma oppositivo, tra Socrate e Eutifrone ne è ancora un possibile emblema e quasi un’ombra lunga nella storia del pensiero.  È quindi difficile stabilire quale sia stato il rapporto della filosofia con il rito, perché è quasi inesistente, tanto ad una prima quanto approfondita considerazione. Per certi aspetti il rito condivide le sorti del mito; la superiorità del logos espelle o rende marginali entrambi. Quando attiva una considerazione della religione, concentrandosi sulla rappresentazione religiosa (il mito o il simbolo), il pensiero filosofico non fa altrettanto per il rito, di solito confuso con cerimonia, qualcosa di esteriore e estrinseco al pensiero. Una via per il ricupero passa attraverso la filosofia del linguaggio e la pragmatica. La teoria dell’atto linguistico di John L. Austin è un buon modello; la riduzione del rito passa attraverso la disgiunzione del locutorio – il senso (negato) –  dall’illocutorio – la forza (ridotta a costrizione esteriore) ‒ e la negazione del perlocutorio (di qualsiasi efficacia positiva); questo smembramento dissolve il rito nella sua intima costituzione. La filosofia del linguaggio di Austin, ricuperando il loro legame all’interno dello stesso linguaggio, ne ha illuminato altre connessioni in altri contesti. «Quando dire è fare» è proprio del rito e del linguaggio, che assume qualcosa dal primo e al tempo stesso contribuisce a renderlo reale «felice».

Non è stato così per la teologia, non solo quella cristiana. Nonostante le dure critiche al ritualismo di ascendenza biblica, in particolare profetica, il rito inteso come liturgia (opus Dei) e sacramento vi ha occupato un posto rilevante. L’attenuarsi della dimensione simbolica non poteva però non influire sulla presa in carico del rito; la sua performatività tendeva ad estraniarlo o ad opporlo al constativo e al dichiarativo propri ad ogni teoria. La riduzione a cerimonia ne ha spesso impoverito sia il senso sia l’efficacia. Non è più cosi da oltre un secolo, per motivi prima prettamente teologici e poi antropologici.

 

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Il fascicolo. Su questo ampio orizzonte, ben presente alla teologia liturgica recente ma ancora in gran parte estranea alla riflessione filosofica, nonostante l’ampio contributo delle scienze «umane», si delinea il tracciato di questo fascicolo, che vuole essere un sondaggio e una riproposizione filosofica e teologica del tema.

 

La sezione Questioni fa il punto su alcuni aspetti finora elencati. La apre Jean Grondin con una specie di elogio rivolto al rito. Rispetto alla denigrazione o alla marginalizzazione a cui spesso è stato ed è ancora costretto, se ne deve opporre una rivalutazione che ne affermi e celebri la bellezza (con una operazione simile a quella riservata dallo stesso Grondin alla metafisica), con una ricaduta di grande importanza: solo prendendo in considerazione il rito, si evita l’esiziale riduzione moderna della religione alla sola credenza. L’irrilevanza riservatagli intacca la religione nel suo nucleo vitale.

In questo stesso orizzonte si colloca il contributo di Paolo Tomatis che disegna la rinnovata attenzione al rito nella teologia sacramentaria cattolica dell’ultimo secolo. La mutazione ha riguardato innanzitutto il livello paradigmatico dell’azione rituale, grazie al quale è stato possibile riconquistarne la pregnanza antropologica e rapportarne la performatività al cuore della fede cristiana. La riscoperta del raccordo intrinseco tra rito e fede apre un nuovo capitolo della ricerca di teologia fondamentale.

Stefano Biancu, a sua volta, precisa il rapporto problematico e diffidente che la filosofia ha con il rito e cerca di rintracciarne i motivi. Per modificare questa situazione, ricorda il nesso che il rito ha con il simbolo, di cui condivide parzialmente le sorti, ma dal quale può ricevere illuminazione. Se la filosofia recente ha modificato questo assetto pregiudiziale, il contesto sociale e culturale contemporaneo ha aggiunto altre difficoltà. Ma in questa sfida, oltre ogni ingenuità, sono in gioco anche le sorti della stessa filosofia.

La sezione Figure ci presenta un mosaico abbastanza variegato che amplia e al tempo stesso concretizza la prospettiva di indagine. Innanzitutto è di un certo rilievo prendere in esame situazioni concrete che servono di verifica delle tesi teoretiche, in questo caso la prassi rituale vigente in area cattolica e quella dell’ambito giuridico-processuale.

Che cosa avviene oggi di fatto nel rapporto con il rito in ambito cattolico? Luigi Berzano presenta il quadro mosso che risulta da alcune recenti indagini sociologiche. Il rito non scompare ma muta la sua percezione e la sua adozione nel ritmo della vita, che pretende una loro maggiore interazione, oltre la sola celebrazione. Se si ricuperano le osservazioni di Mary Douglas risalenti agli anni Sessanta del Novecento, si può rilevare una certa continuità se non di prassi almeno di questioni. Il punto delicato allora e oggi è dato dall’intersezione tra il momento squisitamente rituale e quello antropologico e sociale; lo squilibrio ha implicazioni anche di ordine secolarizzante.

Al campo meno ricordato ma importante per la sua performatività, quello giuridico e processuale, rivolge l’attenzione il saggio di Paolo Heritier. Le origini nel teatro e nell’acclamazione segnalano una presenza rituale di rilievo, che i processi di secolarizzazione in parte occultano ma che hanno ancora la loro ambigua efficacia fino ai nostri giorni. Un legame liturgico collega sacro, politico e giudiziario ed è un capitolo di una ancora necessaria «teologia politica», ora alla prova di nuove forme di de-istituzionalizzazione e di de-simbolizzazione introdotte dal digitale.

Un tratto facilmente evidenziabile del rito è la ripetizione come suo costituente essenziale. La ripetizione può avere un aspetto necessitante come quello evidenziato dall’analisi archeologica freudiana, una necessità che si impone come costrizione e illibertà. La ripetizione assunta al modo di Søren Kierkegaard, invece, può avere un valore inverso e diventare «il compito stesso della libertà». A questa indicazione fa seguito Gianluca De Candia che alla ripetizione affida la stessa attuazione della libertà. Indirettamente questa analisi illumina il rapporto tra rito e libertà, spesso negato a favore di una funzione di mera ed esterna costrizione sociale.

In direzione esattamente opposta si era mosso Baruch Spinoza che dalla religione universale ha eliminato ogni tracia di ritualità a favore di una pura espressione del lume naturale, che si limita a sette dogmi e a sette precetti. Solo una religione senza rito può avere un qualche riconoscimento al livello di comandamento da parte della filosofia, alla quale spetta in esclusiva la ricognizione della verità. Come annota Marco Cassuto Morselli è una definizione che va tenuta presente perché operante ancora oggi, soprattutto là dove i tratti storici dell’esperienza religiosa si affievoliscono o sono considerati caduchi da una lettura «entro i limiti della sola ragione».

L’eco del rito si fa sentire anche nella poesia, per il suo ritmo e per l’aura che riesce a creare, quando la poesia eredita o si appropria di temi e soprattutto di funzioni che un tempo erano sacrali. Qui la stessa poesia tende a diventare rito, nell’esperienza originante, nella composizione scritturale, nella lettura. Chiara Sandrin ne esplora le risonanze in Rainer Maria Rilke e ci permette di ascoltarne la persistenza nella poesia successiva, almeno là dove «l’incanto fonico» (Mariangela Gualtieri) mantiene un tratto non solo teatrale ma anche liturgico.

 

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Aperture. A conclusione di questo percorso e in sede di bilancio, si deve da un lato, soprattutto in prospettiva interculturale, rilevare l’assenza di studi dedicati a tradizioni culturali e religiose di grande rilievo, si pensi all’India e alla Cina, ma anche alle stesse culture preletterarie; dall’altro, è opportuno prendere atto che restano molti aspetti da indagare (i riti quotidiani, personali o famigliari; i riti politici e istituzionali, ecc.). Un dato in ogni caso è acquisito: se gli si è riservata una collocazione marginale, in sé il rito non è affatto marginale; mostrarlo è l’onere della prova tanto a livello teoretico che pratico.

Posizionandoci ora solo sul secondo lato, data l’asimmetria tra teologia e filosofia rispetto al rito, che cosa religione e teologia hanno da offrire al pensiero e alla vita personale e sociale, a partire da una riconsiderazione fenomenologica e riflessiva del rito nella pluralità delle sue manifestazioni? Ispirandoci alla correlazione proposta da Novalis, «Pregare è, nella religione, ciò che il pensiero è in filosofia. [...] Il senso religioso prega – così come l'organo del pensiero pensa»[3], come si può adeguare il rapporto del pensiero al rito, che include ed eccede la preghiera (tema non assente dalla riflessione filosofica)? Quali spunti vengono dal rito, e in qualche caso solo dal rito, per pensare non soltanto il tempo ma anche lo spazio, la corporeità, il linguaggio, e complessivamente la vita? E andando oltre, fino a un punto ancora più nevralgico, quale libertà trovare nel gesto rituale e da esso attendersi?

Di fronte alle pretese del pensiero, anche quello teologico, si deve tuttavia ricordare che il rito mantiene una sua impenetrabilità, tanto da aver fatto paventare molte volte la magia o l’insensatezza o aver suscitato la facile accusa di ritualismo e di mera esteriorità. Non si può certo presumere di dissolvere tale inaccessibilità, la quale oppone una resistenza che il pensiero potrebbe mal tollerare, ma la si può avvicinare con un’opportuna fenomenologia e con un’indispensabile empatia. La sua liminarità, insieme all’efficacia e alla stessa marginalità, che contribuiscono a rafforzare l’impenetrabilità, sono tratti da non trascurare o dai quali lasciarsi interrogare. Il segreto, che spesso ha protetto il rito (e alcuni rituali) dai non iniziati, si impone come un’avvertenza da non ignorare da parte di chi intende coglierne la natura o sondarne l’efficacia. Nell’epoca mediale e della (presunta) trasparenza una qualche «disciplina dell’arcano» dovrebbe trovare posto nella pratica ma anche nel pensiero.

I riti sono comparsi nella storia, attestandosi, senza dare spiegazioni. Nella Bibbia e nei Brahmana, ad esempio, il sacrificio esiste, è ampiamente descritto e prescritto, è indispensabile, ma non se ne motiva mai l’esistenza; crea o impone senso, ma in sé sfugge al senso, perché non è integralmente motivabile. Così accade anche per altri riti, tanto nell’ambito sacrale quanto in quello profano. I riti cristiani, di origine storica, sfuggono a questa condizione, ma non del tutto a una connotazione «misterica» che li sottrae di principio alla divulgazione e alla mera spiegazione.

Insieme a questi aspetti che restano in sospeso nell’indagine offerta da questo fascicolo, si possono raccogliere altri spunti per continuare e approfondire la ricerca. Qual è stato in passato o qual è oggi l’effetto della scomparsa di un rito? L’epoca del dono (cerimoniale) e del sacrificio è conclusa, almeno per molti aspetti; qualcosa investe pure la preghiera, soprattutto per il suo aspetto rituale esterno e sociale. Il vuoto totale o parziale probabilmente non è senza conseguenze, le quali investono anche l’ambito «profano» dove, se la scomparsa del rito non è massiccia, se ne registra un progressivo indebolimento. Il rito del voto è in forte difficoltà nelle democrazie e tale congiuntura non è senza relazione con la crisi rituale in generale. I «miti a bassa intensità» (Peppino Ortoleva) che occupano l’attuale cultura di intrattenimento sono abitualmente privi di riti (tranne il consumo, e non è di poco conto questa rilevazione); al lato opposto si impongono riti che non hanno un mito esplicito di riferimento e ricorrono per imporsi a fascino o a coazione. La convivenza con altri riti, di natura religiosa e in genere più antica, diventa più o meno consapevolmente concorrenziale e sostitutiva.

Non da ultimo, per l’epoca in cui viviamo sovrastata dalla tecnica, si dovrebbe indagare il legame che fin dalle origini si è instaurato tra tecnica e rito per vederne le diramazioni fino ai nostri giorni. «La testardaggine dimostrata spesso dagli uomini nelle loro pratiche del tutto ineffettive rivela una prodigiosa fonte di risorse senza le quali non potremmo nemmeno concepire la messa a punto di quelle stesse tecniche che ci permettono di essere quello che noi siamo»[4]. Forse oggi è proprio la tecnica a catalizzare e a occultare il segreto del rito, la sua potenza e la sua marginalità, la sua imprescindibilità e la sua ambiguità.



[1] A. de Saint-Exupéry, Le Petit Prince, in Œuvres, Gallimard, Paris 1967, p. 472 ; Id., Cittadelle, in Œuvres, Gallimard, Paris 1967, p. 518.

[2] E. M. Zuesse, Rito, in M. Eliade (ed.), Enciclopedia delle religioni, v. 2, Milano. Jaca Book-Marzorati, 1995, p. 484.

[3] Novalis, Fragmente und Studien, 1799-1800, in Schriften, III,  Das philosophische Werk II, 3a ed. a cura di R. Samuel e G. Schulz, Kohlhammer, Stuttgart – Berlin  - Köln – Mainz 1983; trad. it. a cura di F. Desideri e G. Moretti, Frammenti e studi 1799-1800, n. 125, in Scritti filosofici, Morcelliana, Brescia 2019, p. 999. 

[4] R. Girard, Michel Serres. Dal rito alla scienza, in G. Polizzi, M. Porro (a c.), Michel Serres, Marcos y Marcos, Milano 2015, p. 132.